21.3.18

Genoma di Venter. Così piccolo così potente (Giulio Formenti)


Rivoluzioni
Un batterio artificiale dotato di un genoma minimo manipolabile a piacimento. Creato lo scorso anno dal guru della genetica Craig Venter, l’organismo permetterà presto di produrre quasi dal nulla farmaci, biocarburanti, nuovi materiali, tessuti
Craig Venter
Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Seguendo l’imperativo categorico del “rasoio” che nel 1324 portò il frate francescano Guglielmo da Occam alla condanna per eresia, lo scorso anno gli scienziati dell’Istituto di ricerca genomica californiano J. Craig Venter hanno annunciato la sintesi di Syn 3.0, un organismo che vanta il genoma più piccolo e meno ridondante noto sulla terra. Tale genoma è stato interamente assemblato ex-novo: a partire cioè da 531.560 nucleotidi (i mattoni del Dna) uniti singolarmente uno in fila all’altro in un unico cromosoma circolare batterico di 473 geni. Pubblicato su “Science” è stato definito “minimo”, in quanto composto dal minor numero di geni noto per consentire la replicazione dell’organismo. Rappresenta dunque una nuova specie, interamente artificiale dal punto di vista genetico. L’impresa ha richiesto 15 anni di lavoro, il culmine di oltre sette secoli di agenda scientifica riduzionista. Lungi dal poter dire di aver creato la vita, che richiederebbe di assemblare ex abrupto tutti i componenti (Dna, proteine, lipidi) in grado di far funzionare la “macchina”, è il più grande risultato in biologia sintetica della storia. E intenzionalmente il più piccolo. «Anche se non pensiamo sia il genoma minimo definitivo, è sicuramente il nuovo campione mondiale di peso piuma», ha detto Craig Venter. Sulla base di questi risultati a marzo scorso un gruppo di scienziati guidati da Joel Bader dell’università John Hopkins a Baltimora è riuscito a produrre non un semplice batterio bensì 6 dei 16 cromosomi di un vero eucariota – il dominio a cui appartengono piante e animali – unicellulare: il lievito di birra. Oltre alle implicazioni filosofiche, quelle immediate per il progresso tecnologico sono enormi.


Una nuova era per gli Ogm
Dagli anni ’90 è possibile incanalare e dunque in linea di principio sfruttare la corrente elettrica prodotta dal metabolismo dei batteri. È anche noto che molte piante, insetti e batteri sono in grado di produrre naturalmente piccole quantità di alcani e alcheni, i principali costituenti dei combustibili fossili. Già nel 2010 la biotech LS9 di San Francisco è riuscita a ingegnerizzare il batterio intestinale E. coli per secernere carburante diesel puro, sfruttando due geni presi in prestito da un’altra specie batterica. La scorsa estate la Synthethic Genomycs, fondata da Vender, mediante l’editing genetico è riuscita a bioingegnerizzare una micro-alga per produrre grandi quantità di lipidi facilmente trasformabili in biodiesel. E ai primi di ottobre anche l’Istituto di ricerca guidato da Venter ha ricevuto dal Dipartimento dell’Energia Usa un finanziamento di 10,7 milioni di dollari per portare avanti un analogo progetto per fornire biocarburanti e prodotti sintetici.
La possibilità di produrre nuove forme di vita batteriche quasi dal nulla pone una nuova pietra miliare sulla strada degli organismi geneticamente modificati. Un organismo minimo riduce le risorse energetiche richieste per il suo funzionamento e i relativi prodotti di scarto. Consente inoltre un disegno preciso delle caratteristiche dell’organismo stesso, che possono essere orientate verso qualsiasi funzione interessi. La produzione di farmaci (dall’insulina agli antibiotici), di prodotti chimici e carburanti, la rimozione di tossine dall’ambiente, la neosintesi di cellule immunitarie in grado di attaccare selettivamente cellule cancerose, nuovi biomateriali e tessuti. Il limite è solo quello della nostra immaginazione.
Certo, l’altra faccia della medaglia è che non si può escludere un uso improprio di queste tecnologie, con danni più o meno intenzionali all’ambiente e/o alle persone. La conoscenza dell’esatta sequenza genomica di organismi patogeni e la capacità di assemblarli in laboratorio dà la possibilità di costruire armi biologiche. Nel 1975, subito dopo che – sotto il nome di Dna ricombinante – divennero disponibili le prime tecniche di ingegneria genetica, molti scienziati si riunirono ad Asilomar in California e proposero una moratoria internazionale per paura che un uso sconsiderato della nuova tecnologia si dimostrasse deleterio. Tuttavia i timori si rivelarono infondati. O, perlomeno, le precauzioni adottate furono sufficienti, non vi fu alcun uso nocivo e anzi fu il primo, fondamentale passo verso Syn 3.0.

Fai la cosa più semplice che funzioni
Per decenni questo adagio è stato appannaggio di informatici e ingegneri. Di converso, l’evoluzione della vita sulla terra non ha mai seguito un percorso lineare e così facendo ha prodotto risultati largamente subottimali e ridondanti in termini di contenuto e organizzazione del genoma. Non solo molto del Dna non ha apparentemente alcuna funzione, ma anche la maggior parte dei geni non codifica per funzioni essenziali all’organismo, è presente in copie plurime, e addirittura geni diversi possono svolgere una funzione molto simile. Questa ridondanza protegge il genoma dagli accidenti dell’evoluzione, le mutazioni, che in un individuo possono inattivare una copia di un gene importante ma possono difficilmente agire su tutte, specie se sparpagliate in punti diversi del genoma. La sola dimensione del genoma, quindi, non predice la complessità di un organismo, come dimostra il fiore giapponese Paris japonica, con un genoma di oltre 50 volte più grande di quello umano e 282.000 volte più grande rispetto a Syn 3.0.

Un genoma plug and play
Quello di Venter è anche il primo genoma costruito seguendo principi di design e progettazione tipicamente umani. Normalmente i geni che concorrono a una specifica funzione nel ciclo vitale di un organismo si trovano sparpagliati in modo relativamente casuale nel genoma in virtù dei continui riarrangiamenti che interessano la sua evoluzione. Ciò è possibile in quanto solitamente non è necessario che geni che concorrono alla stessa funzione (ad esempio quelli che formano una via metabolica che porta alla produzione di un particolare zucchero) siano anche fisicamente contigui. Nel genoma di Venter, invece, i geni sono tutti strettamente ordinati secondo gruppi-funzione. Ad esempio, tutti i geni che servono alla riparazione del Dna si trovano in prossimità nella stessa regione: tale organizzazione modulare consente rimozioni e inserimenti rapidi e puntuali di interi elementi funzionali, come si trattasse di un genoma plug and play.

Che cos’è la vita?
Sul finire della II guerra mondiale, con queste poche parole il fisico teorico Erwin Schrödinger inaugurava un dibattito durato decenni ma che oggi potrebbe avviarsi a una conclusione, almeno se è vero anche l’inverso di quanto un altro fisico del calibro di Richard Feynman soleva sostenere: «Ciò che non so creare, non sono in grado di capire». Nel 1984, per rispondere alla domanda di Schrödinger, uno dei massimi studiosi delle origini della vita, Harold Morowitz, propose di partire dal piccolo genoma del batterio Mycoplasma genitalium, una specie parassita che ha ridotto notevolmente la lunghezza del suo genoma perdendo tutti i geni necessari alla vita libera. Seguendo il suggerimento di Morowitz, già nel 1995 Venter decise di determinare l’esatta sequenza dei suoi 525 geni. Da quel momento e per i quattro anni successivi tentò di comprendere quanti di tali geni fossero essenziali per la vita, accendendoli e spegnendoli uno alla volta e concludendo che almeno 375 dovevano essere indispensabili. Raggiungere un tale risultato all’epoca fu sensazionale. Solo oggi si sono rese disponibili forbici molecolari in grado di tagliare e inattivare geni specifici, mentre la tecnologia di sintesi del Dna allora muoveva solo i primi passi. Il team di Venter dovette ricorrere all’ingegnoso sistema dei retrotrasposoni, la scoperta dei quali valse il premio Nobel alla scienziata Barbara McClintock nel 1983. I retrotrasposoni sono elementi genetici in grado di viaggiare attraverso il genoma e inserirsi casualmente all’interno dei geni, inattivadoli. Attendere l’inattivazione casuale di tutti i 525 geni richiese molto tempo e altrettanto lavoro. Il primo genoma sintetico non fu batterico ma bensì virale: quello dell’epatite C, assemblato nel 2000. Simili nel comportamento a M.genitalium, i virus richiedono le cellule dell’ospite e in particolare la sua macchina replicativa per riprodursi. Possono pertanto permettersi di essere estremamente semplici, arrivando ad avere anche soli quattro geni (è il caso del virus dei batteri MS2). Solo nel 2008 arrivò, sempre a opera di Venter e colleghi, la sintesi di M. genitalium seguita a stretto giro nel 2010 dalla sintesi di M. capricolum, una specie simile ma dal genoma ancora più grande.

Fiat lux et lux fit
Venter e il suo team si sentivano a un passo dalla meta ma erano troppo ottimisti: la sintesi di Syn 3.0 avrebbe richiesto ancora anni. Lo confessa oggi lo stesso Venter quando dice che per produrre Syn 3.0 il suo team aveva provato a seguire due approcci diversi. Il primo fu di tipo bottom-up, partendo cioè dalla nostra conoscenza su quali siano i geni essenziali alla vita per assemblarli in un unico genoma. È come assemblare un’auto avendo a disposizione le istruzioni di montaggio, ma senza includere alcun accessorio. Due team indipendenti fallirono nel tentativo. «È chiaro che la nostra attuale conoscenza della biologia non è sufficiente per disegnare a tavolino un organismo vivente», concluse Venter, «tutti gli studi degli ultimi 20 anni hanno sottostimato il numero di geni essenziali alla vita». L’alternativa rimasta sul tavolo era l’approccio top-down usato già anni prima per la comprensione dei geni essenziali di M. genitalium: significava partire dalla sequenza di un genoma batterico e rimuovere per tentativi i geni, uno alla volta, al fine di ridurre le dimensioni del genoma ai minimi storici. Adesso era possibile perché la tecnologia di sintesi del Dna aveva fatto considerevoli passi in avanti. Tanto che, invece che minimizzare il genoma già piccolo di M. genitalium, il team di Venter decise di partire dai 901 geni di M. mycoides, una specie a crescita più rapida dov’era quindi possibile effettuare esperimenti molto velocemente. Sulla base delle informazioni ottenute, nel 2016 il team di Venter è stato infine in grado di costruire 8 grandi segmenti di Dna, che combinati insieme hanno dato alla luce Syn 3.0. «Un risultato storico», ha dichiarato Venter, «ma tuttora non conosciamo il significato di un terzo di ciò che è essenziale alla vita». Infatti, dei 473 geni presenti ben 149 hanno funzione ignota. Ma, nonostante queste incognite, sappiamo che 438 codificano per proteine e solo 35 codificano per Rna. Sappiamo anche che il 41% dei geni è responsabile dell’espressione genica, il 18% per elementi strutturali e funzionali della membrana batterica, il 17% per il metabolismo e il 7% per la sintesi e la riparazione del genoma stesso.

La ricerca della verità
Nel 1939 in un documento provocatoriamente intitolato L’utilità della conoscenza inutile Abraham Flexner, fondatore dell’Istituto di Studi Avanzati di Princeton (il più famoso centro di ricerca teorica del mondo), rimarcava l’importanza della ricerca di base per il progresso materiale. Come furono essenziali le ricerche in fisica teorica del Cern di Ginevra per la nascita di Internet, così un risultato scientifico quale la produzione del genoma minimo ha prodotto en passant un avanzamento enorme di tutte le tecnologie legate alla manipolazione del Dna. Ma l’importanza di questo risultato va ben oltre il progresso tecnologico momentaneo. Negli ultimi 50 anni sono state oltre 2.000 le pubblicazioni che hanno suggerito come il possesso di una cellula minima avrebbe consentito di fare passi avanti da gigante nella comprensione dei principi della biologia. Attraverso gli sforzi di costruire nuove forme di vita i biologi sono in grado di capire cosa funziona e cosa no, ponendosi la domanda “perché?”. Mentre la razza umana sta devastando l’ambiente, così facendo qualcuno di noi ha deciso di dare un contributo opposto, aprendo nuovi, imprevedibili sentieri lungo la via dell’evoluzione.

Pagina 99, 20 ottobre 2017

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