24.3.18

Sessantotto. La rivoluzione culturale della musica e il riflusso (Franco Bolelli)

Una lettura provocatoria, discutibile, ma di sicuro stimolante, della colonna sonora del “movimento” americano e del Sessantotto europeo. Da leggere. (S.L.L.)
Gli MC5
«Non c’è bisogno del meteorologo, per sapere da che parte tira il vento» (Bob Dylan n.d.r.), cantava una ventina di anni fa un poeta-guerriero non ancora ad domesticato. A prevedere le metamorfosi del tempo, c’era allora la musica. Perché negli anni Sessanta la musica ha saputo esprimere forse per l'ultima volta — quella funzione di presagio, di premonizione dei mutamenti, che è la sua stessa ragione di vita. Mentre Marshall McLuhan annuncia l’avvento di un'epoca di cultura globale, la musica si propone per istinto genetico come la prima lingua davvero planetria. A scandire il ritmo dei movimenti di ribellione, è in ogni parte del mondo la stessa colonna sonora. Che anzi ai movimenti non fa soltanto da sfondo, ma da scintilla: perché è innanzitutto intorno alla musica che avvampano quella calda temperatura e quello spirito di ribellione che alimenteranno poi l’immaginario politico e culturale dei movimenti
Ma attenzione: questa musica non è una sola, ma la momentanea e irripetibile congiunzione di costellazioni culturali, emotive e sonore tutt’altro che omologhe. La linea di massa (con i Beatles in testa) enfatizza euforici ammodernamenti del costume e del gusto, o tutt’al più (da Elvis Presley ai Rolling Stones) infrange sfrontatamente le superstizioni del più provinciale senso comune. Ci sono poi arrabbiati cantori nella tradizione della beat generation (Bob Dylan), bande radicali di una poetica dell’estremismo più incondizionato (dagli MC5 ai Fugs), ma anche pacifisti di quel rock più moderato che celebrerà a Woodstock la sua ultima illusione. Surfers di solare energia (Beach Boys) convivono con profeti del vizio e dell’eccesso (Velvet Underground) e con esploratori di vibrazioni spaziali (Pink Floyd). La stessa, irresistibile sensibilità vitale della black music si divide fra gioiose spensieratezze (Supremes, Temptations), passioni e tormenti dell’anima (Otis Redding), vampate incendiarie di un jazz libertario (John Coltrane, Albert Ayler). Fino all’avventurosa imprudenza di un rock politico e psichedelico, verso l'allargamento della percezione e delle coscienze (dai Jefferson Airplane, fino allo stesso Jimi Hendrix).
Finché la temperatura ideale tiene alto il calore dell’epoca, tutto questo concentra in sé una sintesi energetica che è vera e propria rivoluzione culturale. Fra radicalismo musicale e movimenti di liberazione la sintonia è ormai elettiva, e quando Ginsberg, Leary e Rubin chiamano a raccolta tutte le tribù della cultura alternativa, sono Jefferson Airplane e Grateful Dead a dar corpo al suono di questo assalto al cielo. Ma appena la temperatura si affievolisce, ecco che la musica continua sì ad agire come presagio, solo che stavolta è il presagio di un declino. Nessun tradimento, ma piuttosto un respiro corto del linguaggio che viene impietosamente a galla quando l’alta marea dell’immaginario collettivo si ritira. Gran parte di queste musiche cominciano a sopravvivere a se stesse ripetendo formule sempre più prevedibili, e a chi vuol vivere all’altezza del mito la scena musicale di fine anni Sessanta sembra non offrire che la crudele chance della morte (quella fisica per Hendrix, Coltrane, Redding, Jim Morrison, Brian Jones, e quella artistica per chi sceglie di scomparire piuttosto che dar spettacolo della propria paralisi inventiva). Si apre un’epoca di grande freddo, con le tribù musicali impegnate a conservare la propria identità autorizzata. Le avanguardie imboccano testardamente il vicolo cieco di una rivoluzione puramente grammaticale. Il rock, come tutti i linguaggi trasgressivi, è costretto dalla sua stessa natura a ripetere per sopravvivere: ripetere, spostato di volta in volta il limite da trasgredire, la formula sempre più rituale della trasgressione, fino a disinnescarla a luogo comune. Dal «vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso» dei Doors si arriva agli Stones addomesticati di «è solo rock&roll ma mi piace». Per dire che troppo spesso le dichiarazioni trasgressive non sono che l’estemporaneo aggettivo di una qualità poetica troppo fragile per aprire orizzonti davvero autonomi, al di là dell’orbita del reale.
Se alziamo lo sguardo oltre il terreno della storia, appare chiaro che i soli progetti musicali degli anni Sessanta che non si esauriscono in quella breve stagione sono quelli che sperimentano più profondi mutamenti del linguaggio e che azzardano poetiche più globali. Miles Davis innanzitutto, che all’immaginario della metamorfosi regala intorno al '68 la folgorante visione di una sintesi analogica dove la metropoli si fonde con la giungla, la lingua nera con l’elettronica, il piacere ritmico con la raffinatezza estetica. E gli stessi Jefferson Airplane, che prima di scivolare nelle sabbie mobili dell’abitudine catturano la luminosa intuizione di un rock trasfigurato e surrealistico, proiettato verso più grandi orizzonti mentali ed emotivi. È il reale come punto di riferimento che viene lasciato alle spalle, con una premonizione che arriva al cuore non soltanto della musica, ma dello stesso movimento di liberazione. Non è più questione di avanguardie e di trasgressioni, ma di mettere a fuoco nuove forme di linguaggio e di vita. Come tutta l’arte davvero grande, anche la grande musica degli anni Sessanta mette in scena il vertiginoso passaggio dal mondo come unità di misura alla progettazione di sensibilità per altri, infiniti mondi possibili.

In Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro 1968-1977, SugarCo, 1988

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