Nel 1984 “il manifesto”
pubblicò in anteprima alcune considerazioni sul disarmo, la guerra e
la pace, che la scrittore argentino Jorge Luis Borges aveva scritto a
quattro mani con il suo amico e ospite Riccardo Campo, ispanista, al
termine di una sua visita in Italia che aveva ottenuto il crisma
dell'ufficialità grazie ad un lungo incontro con il Presidente della
Repubblica italiana del tempo, l'indimenticabile Sandro Pertini. La
riprendo insieme ad una nota esplicativa siglata “l.phoe”, nom
de plume che non so a chi attribuire. (S.L.L.)
Juan Luis Borges e Riccardo Campa a Roma, nel 1984 |
La guerra ha sempre
costituito un dramma per l'umanità. La guerra non è soltanto
tuffetto delle pulsioni umane, "Il "precipua to storico di
tendenze destinate a influenzare la storia. Essa rappresenta sempre
un epilogo; e quindi una corruzio-Tutti gli esseri, nascono, vivono e
muoiono: tutti gli esseri sono quindi candidati alla morte. Ma la
morte è il limite della generosa impresa individuale una volta
infrante le barriere di quel precario equilibrio nel quale consiste
la vita.
Non si può quindi
sostenere che la guerra è il compendio della defezione umana, della
decadenza biologica dell’uomo perché nella guerra si manifestano
in forma spesso enfatizzata quelle aspirazioni prometeiche e
faustiane dell’uomo, che si illude di superare la linea divisoria
del bene e del male e di sconfinare in un campo aperto privo di
remore, congetture, previsioni. La guerra suborna le coscienze e le
illude intorno all’autentico regime dell’assoluto: le guerre
infatti si combattono all’insegna di un ideale, di un’ideologia,
di un simbolo o di un pregiudizio (razziale).
La giustificazione della
guerra tome metabolismo culturale (scambio di informazioni,
redistribuzione delle risorse) prescinde dai propositi individuali:
sembra che un demone s’impossessi di pochi uomini — o di uno solo
— e questi riescano a sconvolgere con il concorso di tutti gli
altri gli equilibri esistenti in un determinato momento storico.
Il demone continua a
suscitare fantasmi; prorompe inconsapevole nell’etimologia della
coscienza, fa razzia di ogni scrupolo etico o morale, confida
nell’inganno, nell’autoinganno dell’uomo. Ognuno per un po’
di tempo si astrae, rimane assente dalla scena del mondo e agisce in
prospettiva, nei recessi di una nuova immensa galassia di umori,
energie, atmosfere recondite.
L’uomo della guerra si
trasforma in pneuma: è alito nelle mani dell’Artefice. Si
scontra con il fato, con le vestigia dell’empito creatore. La
distruzione e la rinascita giacciono come idee nel grembo del tempo:
l’uomo le rende evidenti, le rende palesi nei modi e nelle forme
più congeniali alle sue risorse imitative. La guerra è una
operazione allo specchio: tutti possono fingere con se stessi,
possono accedere alla vanagloria come contrappunto dell’ozio di
pochi in tempo di pace, come gestori del rivolgimento endemico
dell’universo. La guerra rigenera soltanto i propositi di
distruzione. Ogni dopo - guerra, infatti, è un nuovo cantiere, una
nuova scalata all’Olimpo, del benessere e all’estrema atarassia.
La guerra funge da alternativa all’ozio; è la sofferenza diffusa —
socializzata — rispetto al valore esistenziale senechiano ed
esclusivo. La guerra come democrazia della sofferenza si scontra
quindi con l’aristocrazia del dolore.
Nella guerra si sono fusi
infiniti embrioni di idee, si sono dissolte alcune passioni (civili)
e si sono rivalutate tendenze, belluine, inconfessabili terminali di
insensibilità. Tutto sembra precipitare, tutto sembra essere rimosso
dal suo posto: un moto incessante s’abbatte sulle cose e le
attraversa al loro interno fino a dissolverle. Il vento della steppa
e la trasparenza del deserto si alleano in una lenta trasfigurazione
del reale. Il guerriero s’illude di ritornare a vagire, di
ritornare a cogliere i moti ciliari, le intime vibrazioni del creato;
e di legiferare come un nuovo Mosè da un monte isolato sulla testa
degli uomini che in basso spiano le mosse del messia e ne
interpretano i segni prima ancora che siano espliciti, in una
disperata corsa alla diffidenza reciproca.
Si recita di nuovo il
copione dell’attesa: della manna celeste che folgora come il
sospetto le menti meno proclive alla speranza.
La guerra — dice Juan
Bautista Alberdi — è la perdita temporanea del giudizio, una sorta
di vertigine collettiva che disgrega gli insiemi sociali esistenti
nella presunzione di ricostituirli con il concorso di circostanze non
ancora verificatesi. La guerra è una forma di amministrazione della
«giustizia criminale»; e pertanto il culto del militarismo è un
modo per falsificare la storia.
Già nella seconda metà
del secolo scorso Alberdi sostiene l’inevitabilità della guerra e
la necessità di renderla meno frequente, meno crudele e disastrosa.
Questa previsione diventa tanto più attendibile quanto più ci si
approssima all’epoca atomica, al nostro tempo, dominato dal
pericolo della distruzione totale. La insostenibilità della contesa
— se non in forma mimetizzata o sublimata — consente un margine
all’immaginazione e all’utopia. Le stesse necessità che
fomentano tradizionalmente i conflitti possono essere soddisfatte con
altri meccanismi e altri criteri che non siano quelli dello scontro
frontale fra belligeranti.
La tecnica ha creato
un’intesa globale sul pericolo, ha già creato un’internazionale
della paura, alla quale non si può rispondere che nel modo meno
consueto alla valutazione dei vantaggi particolari. La sopravvivenza
del genere umano è diventata un’aspirazione soggettiva. La guerra
come sofisma - elusione e non risoluzione delle questioni — impone
una definizione della pace che faccia astrazione del senso comune,
della comune condizione del bene soggettivo in qualche modo
contrapposto al bene universale.
Tutte le guerre —
afferma Alberdi — pretendono d’essere difensive; di fatto non si
giustificano se non come una sottovalutazione dei pericoli impliciti
nella discriminazione al benessere che alcuni popoli attuano nei
confronti di altri. Il mondo moderno rinuncia al rumore della gloria
e a tutti quegli eccitanti giustificativi della lotta e perfino
dell’individuazione del nemico.
La crisi della
conoscenza, dell’unità della conoscenza e l’avvento del
pluralismo conoscitivo hanno apportato un solo beneficio: hanno
privato l’umanità dei tradizionali bersagli, del manicheismo
concettuale e comportamentale.
La possibilità che
s’intravede come benefico effetto di tale impasse è che una
potenza egemone — quella a più alto livello diciamo così di
coesione politica e amministrativa — corra il rischio del disarmo e
obblighi moralmente la sua controparte a fare altrettanto.
Il presidente della
Repubblica italiana è un grande testimone morale e un grande
interprete dell’inquietudine del mondo. Egli è un autentico
pacifista: qualcosa come un profeta disarmato e al tempo stesso un
testimone delle aspirazioni più o meno esplicitamente espresse da un
grande esercito di uomini e donne inermi, che nel lavoro quotidiano
cercano il senso dell’esistenza.
IL TESTO
Una domenica Ostia
Antica, leggendo Alberdi (l.phoe)
Al termine della sua
visita «ufficiale» in Italia, Jorge Luis Borges ha scritto a
quattro mani con il suo amico e ospite Riccardo Campa, professore
universitario e ispanista, alcune considerazioni comuni sul disarmo,
la guerra, la pace. Il testo, che presentiamo in anteprima, è
scaturito dalla lettura di un raro volume argentino che, nel 1837,
Juan Batista Alberdi ha dedicato a questi temi. Per il suo contenuto
polemico e antimilitarista, il libro (che si intitolava El crimen
de la Guerra), è stato a lungo proibito da tutte le dittature.
Borges ha approfittato
dell’unico giorno di riposo (la domenica, trascorsa a Ostia antica
con l’amico italiano e con l’infaticabile assistente Maria
Kodama) per «scrivere» questo saggio «pacifista».
Lo stile del testo, lo si
vede subito, non è «borgesiano». Ciò non dipende solo dal fatto
che il letterato cieco è intervenuto con le sue osservazioni e
riflessioni su una struttura scritta da Riccardo Campa. È piuttosto
uno di quei casi in cui ci sembra giusto che il suo stile inimitabile
e quindi fin troppo imitato, il culto borgesiano dell’avverbio, del
paradosso, dell’esordio a sensazione e erudito, non prevarichino il
contenuto. Forse «lo stile è l’uomo», ma troppo spesso leggiamo
Borges come se non avesse nulla da dire al di là della scrittura,
come se lo stile fosse un orpello fine a se stesso che combacia con
una materia futile, preziosa e bizantina. Stavolta, anche con
un’intervista che, si spera, rivelerà un pensiero inedito di
Borges, possiamo andare dritti a catturare il suo messaggio, senza
l’anestesia di troppe frasi «memorabili».
“il manifesto”, 20
ottobre 1984
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