24.4.18

Considerazioni sulla pace e sul disarmo (Jorge Luis Borges e Riccardo Campa, 1984)


Nel 1984 “il manifesto” pubblicò in anteprima alcune considerazioni sul disarmo, la guerra e la pace, che la scrittore argentino Jorge Luis Borges aveva scritto a quattro mani con il suo amico e ospite Riccardo Campo, ispanista, al termine di una sua visita in Italia che aveva ottenuto il crisma dell'ufficialità grazie ad un lungo incontro con il Presidente della Repubblica italiana del tempo, l'indimenticabile Sandro Pertini. La riprendo insieme ad una nota esplicativa siglata “l.phoe”, nom de plume che non so a chi attribuire. (S.L.L.)
Juan Luis Borges e Riccardo Campa a Roma, nel 1984

La guerra ha sempre costituito un dramma per l'umanità. La guerra non è soltanto tuffetto delle pulsioni umane, "Il "precipua to storico di tendenze destinate a influenzare la storia. Essa rappresenta sempre un epilogo; e quindi una corruzio-Tutti gli esseri, nascono, vivono e muoiono: tutti gli esseri sono quindi candidati alla morte. Ma la morte è il limite della generosa impresa individuale una volta infrante le barriere di quel precario equilibrio nel quale consiste la vita.
Non si può quindi sostenere che la guerra è il compendio della defezione umana, della decadenza biologica dell’uomo perché nella guerra si manifestano in forma spesso enfatizzata quelle aspirazioni prometeiche e faustiane dell’uomo, che si illude di superare la linea divisoria del bene e del male e di sconfinare in un campo aperto privo di remore, congetture, previsioni. La guerra suborna le coscienze e le illude intorno all’autentico regime dell’assoluto: le guerre infatti si combattono all’insegna di un ideale, di un’ideologia, di un simbolo o di un pregiudizio (razziale).
La giustificazione della guerra tome metabolismo culturale (scambio di informazioni, redistribuzione delle risorse) prescinde dai propositi individuali: sembra che un demone s’impossessi di pochi uomini — o di uno solo — e questi riescano a sconvolgere con il concorso di tutti gli altri gli equilibri esistenti in un determinato momento storico.
Il demone continua a suscitare fantasmi; prorompe inconsapevole nell’etimologia della coscienza, fa razzia di ogni scrupolo etico o morale, confida nell’inganno, nell’autoinganno dell’uomo. Ognuno per un po’ di tempo si astrae, rimane assente dalla scena del mondo e agisce in prospettiva, nei recessi di una nuova immensa galassia di umori, energie, atmosfere recondite.
L’uomo della guerra si trasforma in pneuma: è alito nelle mani dell’Artefice. Si scontra con il fato, con le vestigia dell’empito creatore. La distruzione e la rinascita giacciono come idee nel grembo del tempo: l’uomo le rende evidenti, le rende palesi nei modi e nelle forme più congeniali alle sue risorse imitative. La guerra è una operazione allo specchio: tutti possono fingere con se stessi, possono accedere alla vanagloria come contrappunto dell’ozio di pochi in tempo di pace, come gestori del rivolgimento endemico dell’universo. La guerra rigenera soltanto i propositi di distruzione. Ogni dopo - guerra, infatti, è un nuovo cantiere, una nuova scalata all’Olimpo, del benessere e all’estrema atarassia. La guerra funge da alternativa all’ozio; è la sofferenza diffusa — socializzata — rispetto al valore esistenziale senechiano ed esclusivo. La guerra come democrazia della sofferenza si scontra quindi con l’aristocrazia del dolore.
Nella guerra si sono fusi infiniti embrioni di idee, si sono dissolte alcune passioni (civili) e si sono rivalutate tendenze, belluine, inconfessabili terminali di insensibilità. Tutto sembra precipitare, tutto sembra essere rimosso dal suo posto: un moto incessante s’abbatte sulle cose e le attraversa al loro interno fino a dissolverle. Il vento della steppa e la trasparenza del deserto si alleano in una lenta trasfigurazione del reale. Il guerriero s’illude di ritornare a vagire, di ritornare a cogliere i moti ciliari, le intime vibrazioni del creato; e di legiferare come un nuovo Mosè da un monte isolato sulla testa degli uomini che in basso spiano le mosse del messia e ne interpretano i segni prima ancora che siano espliciti, in una disperata corsa alla diffidenza reciproca.
Si recita di nuovo il copione dell’attesa: della manna celeste che folgora come il sospetto le menti meno proclive alla speranza.
La guerra — dice Juan Bautista Alberdi — è la perdita temporanea del giudizio, una sorta di vertigine collettiva che disgrega gli insiemi sociali esistenti nella presunzione di ricostituirli con il concorso di circostanze non ancora verificatesi. La guerra è una forma di amministrazione della «giustizia criminale»; e pertanto il culto del militarismo è un modo per falsificare la storia.
Già nella seconda metà del secolo scorso Alberdi sostiene l’inevitabilità della guerra e la necessità di renderla meno frequente, meno crudele e disastrosa. Questa previsione diventa tanto più attendibile quanto più ci si approssima all’epoca atomica, al nostro tempo, dominato dal pericolo della distruzione totale. La insostenibilità della contesa — se non in forma mimetizzata o sublimata — consente un margine all’immaginazione e all’utopia. Le stesse necessità che fomentano tradizionalmente i conflitti possono essere soddisfatte con altri meccanismi e altri criteri che non siano quelli dello scontro frontale fra belligeranti.
La tecnica ha creato un’intesa globale sul pericolo, ha già creato un’internazionale della paura, alla quale non si può rispondere che nel modo meno consueto alla valutazione dei vantaggi particolari. La sopravvivenza del genere umano è diventata un’aspirazione soggettiva. La guerra come sofisma - elusione e non risoluzione delle questioni — impone una definizione della pace che faccia astrazione del senso comune, della comune condizione del bene soggettivo in qualche modo contrapposto al bene universale.
Tutte le guerre — afferma Alberdi — pretendono d’essere difensive; di fatto non si giustificano se non come una sottovalutazione dei pericoli impliciti nella discriminazione al benessere che alcuni popoli attuano nei confronti di altri. Il mondo moderno rinuncia al rumore della gloria e a tutti quegli eccitanti giustificativi della lotta e perfino dell’individuazione del nemico.
La crisi della conoscenza, dell’unità della conoscenza e l’avvento del pluralismo conoscitivo hanno apportato un solo beneficio: hanno privato l’umanità dei tradizionali bersagli, del manicheismo concettuale e comportamentale.
La possibilità che s’intravede come benefico effetto di tale impasse è che una potenza egemone — quella a più alto livello diciamo così di coesione politica e amministrativa — corra il rischio del disarmo e obblighi moralmente la sua controparte a fare altrettanto.
Il presidente della Repubblica italiana è un grande testimone morale e un grande interprete dell’inquietudine del mondo. Egli è un autentico pacifista: qualcosa come un profeta disarmato e al tempo stesso un testimone delle aspirazioni più o meno esplicitamente espresse da un grande esercito di uomini e donne inermi, che nel lavoro quotidiano cercano il senso dell’esistenza.

IL TESTO
Una domenica Ostia Antica, leggendo Alberdi (l.phoe)
Al termine della sua visita «ufficiale» in Italia, Jorge Luis Borges ha scritto a quattro mani con il suo amico e ospite Riccardo Campa, professore universitario e ispanista, alcune considerazioni comuni sul disarmo, la guerra, la pace. Il testo, che presentiamo in anteprima, è scaturito dalla lettura di un raro volume argentino che, nel 1837, Juan Batista Alberdi ha dedicato a questi temi. Per il suo contenuto polemico e antimilitarista, il libro (che si intitolava El crimen de la Guerra), è stato a lungo proibito da tutte le dittature.
Borges ha approfittato dell’unico giorno di riposo (la domenica, trascorsa a Ostia antica con l’amico italiano e con l’infaticabile assistente Maria Kodama) per «scrivere» questo saggio «pacifista».
Lo stile del testo, lo si vede subito, non è «borgesiano». Ciò non dipende solo dal fatto che il letterato cieco è intervenuto con le sue osservazioni e riflessioni su una struttura scritta da Riccardo Campa. È piuttosto uno di quei casi in cui ci sembra giusto che il suo stile inimitabile e quindi fin troppo imitato, il culto borgesiano dell’avverbio, del paradosso, dell’esordio a sensazione e erudito, non prevarichino il contenuto. Forse «lo stile è l’uomo», ma troppo spesso leggiamo Borges come se non avesse nulla da dire al di là della scrittura, come se lo stile fosse un orpello fine a se stesso che combacia con una materia futile, preziosa e bizantina. Stavolta, anche con un’intervista che, si spera, rivelerà un pensiero inedito di Borges, possiamo andare dritti a catturare il suo messaggio, senza l’anestesia di troppe frasi «memorabili».

“il manifesto”, 20 ottobre 1984

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