Prato, Chiesa di San Francesco, Banchieri toscani |
Non sarà certamente il
primo grande crack della storia della finanza, ma le spettacolari
bancarotte dei banchieri fiorentini e dello stesso Comune di Firenze,
negli anni ’40 del Trecento, marcarono profondamente l’immaginario
dei contemporanei e condussero a un riordino di assetti e a soluzioni
interessanti e creative.
È nel 1345 che la
decisione di Edoardo III d’Inghilterra di annullare il debito che
aveva contratto con i Bardi e i Peruzzi per finanziare una guerra
fallimentare porta a conseguenze drammatiche. Già da qualche anno il
modello finanziario di prestito ai sovrani sembrava essere entrato in
una fase pericolosa, ma è con quella decisione inglese che
rapidamente falliscono non solo le famiglie dei grandissimi
prestatori, ma tutta la rete di finanziatori, di cui Bardi e Peruzzi
sono i capifila e i garanti. Come in un effetto domino conseguente e
inarrestabile, non solo le famiglie di mercanti-banchieri perdono
l’enorme quantità di denaro investito, ma vengono anche accusati
di malversazioni e sospesi o esclusi da mercati e reti europee.
Insieme a loro tutta una filiera di piccoli investitori finanziari
affonda in una crisi potenzialmente letale.
Ma non basta, perché
questi eventi si intrecciano e potenziano un’altra crisi
finanziaria, quella del Comune di Firenze, che nello stesso giro di
mesi dichiara la propria impossibilità a pagare i prestiti concessi
dai cittadini, cioè i propri titoli pubblici. O meglio, stabilisce
che non potrà pagare il valore nominale dei titoli, ma si impegna a
pagare un interesse annuo perpetuo del 5% calcolato su quel valore.
Lorenzo Tanzin,
professore di Storia medievale all’università di Cagliari, in un
libro agile e godibile (1345. La bancarotta di Firenze. Una storia
di banchieri, fallimenti e finanza, Salerno, Roma), parte da
questi due eventi per rintracciare la storia di quella crisi di
sistema e le soluzioni messe in opera per farvi fronte. Ne risulta
anche un bello spaccato della società trecentesca fiorentina e
toscana, delle sue dinamiche finanziarie e del suo respiro
internazionale.
Il fallimento dei
mercanti-banchieri, dei prestatori finanziari, è anche conseguenza
di un gioco sottile e pericoloso, fatto di relazioni politiche
internazionali ambigue, della ricerca del massimo profitto, di una
struttura del prestito che di fatto non conosce la responsabilità
limitata e a volte entra nell’area dell’azzardo. Il Comune si
trova a gestire queste procedure di fallimento tentando soluzioni
condivise e durevoli, come la ristrutturazione concordata del debito,
che però non sempre sembrano praticabili. Quando da ogni punto
d’Europa compaiono creditori delle grandi compagnie o addirittura
regnanti o istituzioni pubbliche estere, riuscire a gestire la crisi
diventa difficile, ma è anche un impegno di ordine politico e
strategico, perché la caduta della fiducia produrrebbe ripercussioni
incalcolabili sulla tenuta stessa della città, provocando perdite di
mercati e addirittura rappresaglie sui fiorentini all’estero.
Come se questa situazione
non fosse bastata, lo stato delle finanze pubbliche della città si
era già degradato negli anni che precedono il crack dei privati, e
il debito pubblico fiorentino assume proporzioni insostenibili, tanto
che il debito viene indicato contabilmente con un nome che ne rivela
la massa e cioè “il Monte”. Due tipi di debito pubblico – ci
mostra Tanzini con dovizia di dettagli e chiarendone agevolmente le
caratteristiche tecniche – si accumulano. Da un lato abbiamo somme
prestate in modo forzoso, come imposizioni che sono soggette però a
una forma particolare di restituzione, cioè alla corresponsione di
un interesse (ma non del capitale). Dall’altro lato abbiamo
prestiti volontari, di breve termine, che costituiscono un vero e
proprio mercato in cui la città negozia interessi e modi della
restituzione. Il default di Firenze del 1345 dichiara, come abbiamo
visto, la non restituzione dei crediti, ma li trasforma in una
rendita del 5 per cento. Comincia per il Comune una battaglia
contabile, simbolica e politica per preservare la fiducia nella città
di tutte le componenti del sistema. Un passo simbolico di grande
importanza è la realizzazione dell’imponente registro pubblico di
tutti i creditori del Comune: l’istituzione comunale non cancella
la memoria del proprio debito, ma anzi la rende pubblica, come segno
di una volontà di soluzioni. È l’autorità pubblica il tesoro
comune, sembra voler dire quel registro, e la sua credibilità va
difesa. A questa dichiarazione simbolica se ne aggiunge una molto
tecnica e concreta: chi avesse tentato di abolire l’interesse annuo
del 5% avrebbe dovuto pagare una multa di 2mila fiorini, metà della
quale non al Comune, ma alla Camera apostolica, cioè al papa. In
questo modo si vincolava la parola del Comune a un’autorità
esterna, che tanto più è efficace quanto più avrebbe ben
volentieri incassato le ammende (e ne avrebbe avute tutte le capacità
e l’autorità).
Dunque calcolando la
massa delle proprie entrate attraverso le tasse, non provocando
panico tra creditori e investitori, avendo ristrutturato il debito,
Firenze riteneva di poter gestire “il Monte” (e forse abbassarne
un po’ la cima).
Furono allo stesso tempo
escogitate alcune forme piuttosto “creative” di
approvvigionamento al credito. I cittadini creditori del Comune erano
infatti incoraggiati a prestare altro denaro in cambio dello
scongelamento del valore nominale del loro credito pregresso. In
pratica, chi avesse avuto un credito lo avrebbe avuto indietro
integralmente – ciò che la legge del 1345 proibiva, avendolo
trasformato in un interesse annuo -, se avesse prestato altro denaro
(anche questo restituibile totalmente). Per dirla tutta, si era
creato un mercato del debito: il valore nominale del proprio titolo
poteva infatti essere venduto a terzi, che l’acquistava a prezzo
enormemente ridotto garantendosi solo il pagamento dell’interesse.
Ma ora poteva reinvestirlo nel Comune prestando altro denaro, ma
riguadagnando tutto il credito nominale del titolo e dunque con un
enorme profitto.
Insomma il sistema tiene,
non solo quello pubblico, ma anche quello privato, perché i
mercanti-banchieri avevano da tempo consolidato i loro prodotti e
processi manifatturieri; le loro reti internazionali, dopo un primo
sbandamento, si erano ricostituite e la loro capacità di raccogliere
e investire denaro era di nuovo richiesta.
Neppure la grande peste,
quella del 1348-49, che pure è uno shock e riduce drammaticamente
la popolazione, affonda il sistema, perché paradossalmente la
diminuzione di manodopera fa aumentare i salari e innesca meccanismi
produttivi e di consumo che assecondano, pur nel dramma come in una
sorta di dopoguerra, la ripresa della città. Non sarà sempre così
e l’equilibrio si romperà di nuovo, nel 1378, con la rivolta dei
salariati esclusi da tutto, i Ciompi.
“Il Sole 24 ore –
Domenica”, 8 aprile 2018
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