8.4.18

Il rovello di Gerusalemme. La storia di una città-mondo in un bel saggio (David Bidussa)


Gerusalemme ha una doppia immagine: città amata e contesa, in una competizione religiosa e nazionalista; connotata da insediamenti etnici, che rendono ciascuna parte della città estranea e “alternativa” alle altre. Un quadro che fa dire agli autori, nelle pagine conclusive (Vincent Lemire con Katell Berthelot, Julien Loiseau e Yann Potin, Gerusalemme. Storia di una città-mondo, traduzione dal francese di Valeria Zini, Einaudi) che la soluzione non verrà dalla politica, ma solo dal ritorno in campo di un’ “iniziativa dal basso”, capace di mettere nell’angolo la storia dei morti, di dare spazio alla storia dei vivi e ai loro problemi quotidiani (sovraffollamento di quartieri, servizi alla persona mal distribuiti, per esempio), infine dalla capacità di governare una metropoli binazionale rivendicata come capitale da due società in guerra, caratterizzate da un quadro demografico molto esplosivo e da uno amministrativo alquanto incerto.
È l’ultimo fotogramma di una trasformazione recente.
Ancora all’inizio del XX secolo, quando pure la città subisce un’urbanizzazione intensa, la situazione è molto diversa da quella odierna. Nel 1880 la popolazione che vive fuori dalle Mura della città vecchia è il 6 per cento; nel 1897, venti anni dopo, è già poco meno del 50 per cento. Questo senza che si alteri il quadro promiscuo dei quartieri della città vecchia, come dei nuovi quartieri della città nuova, fuori dalle mura, che appunto rimangono “ibridi”.
La rivoluzione dei “giovani turchi” (1908) trova Gerusalemme in festa ad accogliere la proposta di favorire la coabitazione di più culture senza schiacciare le identità. È un entusiasmo che dura poco. Lo scoppio della Prima guerra mondiale, la dissoluzione dell’impero ottomano e l’avvio del mandato inglese innescano meccanismi di conflitto che anticipano quelli più consistenti negli anni tra le due guerre. Quella condizione s’intensifica nella seconda metà degli anni 30, si sancisce con la fine del mandato inglese. La spartizione votata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947 non risolve quel conflitto.
Da quel momento Gerusalemme inizia ad avere una fisionomia identitaria e confessionale molto divisiva, che è foriera di altre divisioni (non solo tra fedi, ma anche tra laici e credenti) che accompagnano la dimensione triplice del conflitto che la riguarda in quanto: 1) capitale universale; 2) capitale nazionale di due attori che continuano a fronteggiarsi; 3) essere binazionale.
E tuttavia, insistono gli autori, l’identità percepita della città non è stata questa. Anzi, la rivendicazione della sua dimensione di spazio sacro più che un presupposto – come oggi spesso appare al senso comune – è un risultato. Prima di tutto i “luoghi santi”, che hanno una storia e che, all’interno dei diversi sistemi di fede, sono il risultato di un lungo processo in cui la memoria collettiva non conserva il passato, ma lo ricrea e lo carica di nuovi significati. In breve quei luoghi non nascono “santi”, lo diventano.
Il sociologo Maurice Halbwachs lo aveva già compreso nel 1941 quando scriveva La topographie légendaire des Evangiles en Terre Sainte, un testo che coglie il punto emozionale e intellettuale che sta al centro di Gerusalemme: una città assunta come simbolo in cui si ripresenta il meccanismo proprio di tutti i processi di sacralizzazione del presente: una ricostruzione del passato, che adatta l’immagine degli antichi fatti alle credenze e ai bisogni spirituali del presente.
Più concretamente. È la dimensione dell’esilio a creare la visione centrale di Gerusalemme nel vissuto ebraico antico. Una dimensione che la costruzione del Santuario non determina, mentre la determina la sua distruzione ad opera dei babilonesi e poi la sua ricostruzione con il ritorno dall’esilio babilonese tra VI e V secolo a. C. e che trova le sue parole nei versi del Salmo 137, più noto come il “pianto degli esuli”. Fino a quel momento è il monte Sinai a rappresentare il luogo generativo dell’identità. La distruzione del Santuario ad opera di Nabucodonosor, se da una parte consolida l’idea di un’immagine utopica di pacificazione (sono i versi del libro del profeta Michà, 4, 1-4), dall’altra trasforma il Santuario nel luogo generativo della propria identità.
Da quel momento Gerusalemme entra nell’immaginario ebraico, risolvendosi come metafora dei luoghi che funzionano da capitali culturali nel corso della lunga diaspora e che funzionano da centri aggregatori e diffusori del sapere ebraico.
Non sarà diversamente per le altre religioni del Libro che reclamano un loro diritto di identità su Gerusalemme e lo rivendicano come tratto originario della loro storia e come elemento fondativo della loro personalità culturale e teologica.
Il cristianesimo ha stentato lungamente a individuare Gerusalemme come un suo luogo. Questo del resto vale non solo per Gerusalemme ma per tutti quei luoghi che definiscono la Terra santa come spazio proprio. La chiesa del Santo Sepolcro è una costruzione a posteriori, un luogo di culto che dà forma a un bisogno più che individuare il punto dove si è data una storia. Lo stesso accade per tutti quei luoghi in ci si definiscono le tappe della vita di Gesù e della sua predicazione che solo molto dopo iniziano ad essere individuati come luoghi della fede. È l’invenzione della Terra santa, come scriveva Maurice Halbwachs nel 1941, ma anche l’effetto a posteriori di un evento inventato, rispetto all’immagine che noi oggi abbiamo, come ha dimostrato il medievista Christopher Tyerman a proposito delle crociate (L’invenzione delle crociate, Einaudi).
Non diversamente per il mondo islamico, per il quale Gerusalemme inizia ad essere un luogo solo in seguito alla “riconquista”, alla fine del XII secolo, ovvero mezzo millennio dopo la predicazione di Maometto e che anche dopo con difficoltà, almeno fino al XVI secolo, non la identifica come un proprio luogo di culto. Per concludere: la geografia degli insediamenti, della lunga coabitazione sembrerebbe dar ragione a un percorso di condivisione. La storia dell’immaginario, almeno quella degli ultimi due secoli, non aprirebbe a soluzioni condivise. L’identità è sempre il risultato di un processo di convinzione, anche quando chiama a testimoniare a proprio sostegno le testimonianze del passato.

Il Sole 24 Ore Domenica, 7 gennaio 2018

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