Gerusalemme ha una doppia
immagine: città amata e contesa, in una competizione religiosa e
nazionalista; connotata da insediamenti etnici, che rendono ciascuna
parte della città estranea e “alternativa” alle altre. Un quadro
che fa dire agli autori, nelle pagine conclusive (Vincent Lemire con
Katell Berthelot, Julien Loiseau e Yann Potin, Gerusalemme. Storia
di una città-mondo, traduzione dal francese di Valeria Zini,
Einaudi) che la soluzione non verrà dalla politica, ma solo dal
ritorno in campo di un’ “iniziativa dal basso”, capace di
mettere nell’angolo la storia dei morti, di dare spazio alla storia
dei vivi e ai loro problemi quotidiani (sovraffollamento di
quartieri, servizi alla persona mal distribuiti, per esempio), infine
dalla capacità di governare una metropoli binazionale rivendicata
come capitale da due società in guerra, caratterizzate da un quadro
demografico molto esplosivo e da uno amministrativo alquanto incerto.
È l’ultimo fotogramma
di una trasformazione recente.
Ancora all’inizio del
XX secolo, quando pure la città subisce un’urbanizzazione intensa,
la situazione è molto diversa da quella odierna. Nel 1880 la
popolazione che vive fuori dalle Mura della città vecchia è il 6
per cento; nel 1897, venti anni dopo, è già poco meno del 50 per
cento. Questo senza che si alteri il quadro promiscuo dei quartieri
della città vecchia, come dei nuovi quartieri della città nuova,
fuori dalle mura, che appunto rimangono “ibridi”.
La rivoluzione dei
“giovani turchi” (1908) trova Gerusalemme in festa ad accogliere
la proposta di favorire la coabitazione di più culture senza
schiacciare le identità. È un entusiasmo che dura poco. Lo scoppio
della Prima guerra mondiale, la dissoluzione dell’impero ottomano e
l’avvio del mandato inglese innescano meccanismi di conflitto che
anticipano quelli più consistenti negli anni tra le due guerre.
Quella condizione s’intensifica nella seconda metà degli anni 30,
si sancisce con la fine del mandato inglese. La spartizione votata
dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947 non risolve
quel conflitto.
Da quel momento
Gerusalemme inizia ad avere una fisionomia identitaria e
confessionale molto divisiva, che è foriera di altre divisioni (non
solo tra fedi, ma anche tra laici e credenti) che accompagnano la
dimensione triplice del conflitto che la riguarda in quanto: 1)
capitale universale; 2) capitale nazionale di due attori che
continuano a fronteggiarsi; 3) essere binazionale.
E tuttavia, insistono gli
autori, l’identità percepita della città non è stata questa.
Anzi, la rivendicazione della sua dimensione di spazio sacro più che
un presupposto – come oggi spesso appare al senso comune – è un
risultato. Prima di tutto i “luoghi santi”, che hanno una storia
e che, all’interno dei diversi sistemi di fede, sono il risultato
di un lungo processo in cui la memoria collettiva non conserva il
passato, ma lo ricrea e lo carica di nuovi significati. In breve quei
luoghi non nascono “santi”, lo diventano.
Il sociologo Maurice
Halbwachs lo aveva già compreso nel 1941 quando scriveva La
topographie légendaire des Evangiles en Terre Sainte, un testo
che coglie il punto emozionale e intellettuale che sta al centro di
Gerusalemme: una città assunta come simbolo in cui si ripresenta il
meccanismo proprio di tutti i processi di sacralizzazione del
presente: una ricostruzione del passato, che adatta l’immagine
degli antichi fatti alle credenze e ai bisogni spirituali del
presente.
Più concretamente. È la
dimensione dell’esilio a creare la visione centrale di Gerusalemme
nel vissuto ebraico antico. Una dimensione che la costruzione del
Santuario non determina, mentre la determina la sua distruzione ad
opera dei babilonesi e poi la sua ricostruzione con il ritorno
dall’esilio babilonese tra VI e V secolo a. C. e che trova le sue
parole nei versi del Salmo 137, più noto come il “pianto
degli esuli”. Fino a quel momento è il monte Sinai a rappresentare
il luogo generativo dell’identità. La distruzione del Santuario ad
opera di Nabucodonosor, se da una parte consolida l’idea di
un’immagine utopica di pacificazione (sono i versi del libro del
profeta Michà, 4, 1-4), dall’altra trasforma il Santuario nel
luogo generativo della propria identità.
Da quel momento
Gerusalemme entra nell’immaginario ebraico, risolvendosi come
metafora dei luoghi che funzionano da capitali culturali nel corso
della lunga diaspora e che funzionano da centri aggregatori e
diffusori del sapere ebraico.
Non sarà diversamente
per le altre religioni del Libro che reclamano un loro diritto di
identità su Gerusalemme e lo rivendicano come tratto originario
della loro storia e come elemento fondativo della loro personalità
culturale e teologica.
Il cristianesimo ha
stentato lungamente a individuare Gerusalemme come un suo luogo.
Questo del resto vale non solo per Gerusalemme ma per tutti quei
luoghi che definiscono la Terra santa come spazio proprio. La chiesa
del Santo Sepolcro è una costruzione a posteriori, un luogo di culto
che dà forma a un bisogno più che individuare il punto dove si è
data una storia. Lo stesso accade per tutti quei luoghi in ci si
definiscono le tappe della vita di Gesù e della sua predicazione che
solo molto dopo iniziano ad essere individuati come luoghi della
fede. È l’invenzione della Terra santa, come scriveva Maurice
Halbwachs nel 1941, ma anche l’effetto a posteriori di un evento
inventato, rispetto all’immagine che noi oggi abbiamo, come ha
dimostrato il medievista Christopher Tyerman a proposito delle
crociate (L’invenzione delle crociate, Einaudi).
Non diversamente per il
mondo islamico, per il quale Gerusalemme inizia ad essere un luogo
solo in seguito alla “riconquista”, alla fine del XII secolo,
ovvero mezzo millennio dopo la predicazione di Maometto e che anche
dopo con difficoltà, almeno fino al XVI secolo, non la identifica
come un proprio luogo di culto. Per concludere: la geografia degli
insediamenti, della lunga coabitazione sembrerebbe dar ragione a un
percorso di condivisione. La storia dell’immaginario, almeno quella
degli ultimi due secoli, non aprirebbe a soluzioni condivise.
L’identità è sempre il risultato di un processo di convinzione,
anche quando chiama a testimoniare a proprio sostegno le
testimonianze del passato.
Il Sole 24 Ore Domenica,
7 gennaio 2018
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