21.4.18

La ribellione silenziosa dei gay musulmani (Samuele Cafasso)


Nel 2011, in Bahrein, un gruppo di attivisti per i diritti umani lanciò un forum online, come ve ne sono molti, ma il tema era, almeno per i Paesi arabi, inusuale. Ahwaa, che in arabo significa “desideri”, era infatti rivolto alle persone non eterosessuali, gay, lesbiche, bisessuali, transessuali, queer, intersex (Lgbtqi).
Lo scopo del sito, secondo le parole di una delle fondatrici, Esra’a al-Shafei, era semplicemente agire come «rete di sostegno» e «risorsa» a disposizione di chi voleva saperne di più sulle differenze sessuali nell’Africa settentrionale e in Medio Oriente.
Sei anni dopo le primavere arabe sembrano, a noi osservatori occidentali, irrimediabilmente sepolte sotto le macerie dell’avanzata dei fondamentalismi e di nuove autocrazie. Eppure Ahwaa resiste e anzi prospera, chiunque può collegarsi a una rete che conta migliaia di partecipanti e discussioni attive tra cui «Se potessi, sceglieresti di essere eterosessuale?», «Lesbiche egiziane, dove siete?», o ancora «Vi sentite colpevoli per come siete?».

Segni di battaglia
Ahwaa è solo un esempio di una nuova visibilità che vanno acquisendo le persone Lgbtqi in Medio Oriente grazie alla rete. Come dobbiamo interpretare fenomeni del genere?
Secondo Daveed Gartenstein-Ross e Nathaniel Barr «non è del tutto chiaro come l’emergere delle comunità emarginate (come quella Lgbtqi o quella dei critici nei confronti della religione), che è stato permesso da Internet, ridefinirà le società a maggioranza musulmana» e, tuttavia «indipendentemente dal loro esito finale, possiamo già individuare i segnali delle battaglie culturale in arrivo nell’Islam. Gli osservatori occidentali per molto tempo hanno trascurato o interpretato in modo sbagliato le tendenze sociali che hanno attraversato i Paesi a maggioranza musulmana. Questa è una tendenza che non possono permettersi di non cogliere». Insomma, forse c’è una primavera gay araba pronta a sbocciare. E noi non la stiamo vedendo.
Daveed Gartenstein-Ross e Nathaniel Barr non sono attivisti, ma analisti esperti di geopolitica e del mondo arabo in particolare, la loro ricerca è stata pubblicata a marzo dall’autorevole Foreign Affairs e in Italia riproposta dal sito “Il Grande Colibrì”. Se n’è discusso molto poco, perché l’idea che vi sia un mondo musulmano Lgbtqi in fermento e che potenzialmente potrebbe contribuire a cambiare la rotta di questi Paesi è un concetto che non si incasella bene negli schemi mentali con cui leggiamo oggi quello che sta succedendo in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale.
Eppure, ricordano i due autori, esistono decine di ricerche che raccontano come la rete sia un acceleratore formidabile per lo sviluppo delle identità delle minoranze, specie se “nascoste” come sono quelle Lgbtqi in particolare. I due autori si spingono a citare, come termine di paragone, la corsa degli Usa verso i matrimoni egualitari, ricordando come solo nel 2008 il candidato alla presidenza Barack Obama dichiarava di non essere «una persona che promuove il matrimonio tra persone dello stesso sesso».
Tutto è cambiato velocemente e una spiegazione è l’enorme spinta venuta dal web che permette alle persone non eterosessuali di conoscersi, vivere a pieno la propria identità, formare comunità e attivarsi politicamente a una velocità fino a ieri impensabile.
«Secondo Internet World Stats, nel 2010 i tassi di penetrazione di internet erano solo del 10,9% in Africa sub-sahariana e del 29,8% in Medio Oriente. Al contrario in Nord America il tasso era del 77,4%. Ma nel 2016 la penetrazione di internet era cresciuta al 28% in Africa sub-sahariana e al 57% in Medio Oriente. Alcuni Paesi musulmani sono stati all’avanguardia nel boom globale dell’accesso a internet: il tasso dell’Arabia Saudita è più che raddoppiato tra il 2007 e il 2016, mentre il tasso della Tunisia nello stesso periodo è salito dal 13% fino a sfiorare il 50%».

Il ruolo del porno
Tra i maggiori osservatori italiani del fenomeno Lgbtqi in Paesi diversi da quelli occidentali c’è Pier Cesare Notaro, tra gli animatori de “Il Grande Colibrì” e volontario sia nel campo dell’immigrazione che in quello dei diritti Lgbtqi. «Dal 2011 a oggi l’accelerazione è stata evidente, soprattutto in Paesi come l’Algeria, o il Marocco. C’è una discussione pubblica sulla depenalizzazione dell’omosessualità impensabile fino a qualche anno fa e, insieme a questo, c’è ovviamente una reazione con ondate di nuovi arresti o fenomeni di intimidazione. Ma si tratta, appunto, di una reazione. C’entrano i forum come Ahwaa, certo, così come le app per gli incontri, anche la diffusione sotterranea della pornografia che permette a persone cresciute in ambienti fortemente conservatori di venire a conoscenza di una sessualità sconosciuta». Molto dipende poi dalle singole realtà nazionali. In Paesi come il Libano è stata la magistratura stessa a proporre la depenalizzazione. In altri Paesi, come l’Egitto, è forte la reazione contro un movimento omosessuale che, durante le primavere arabe, aveva giocato un ruolo essenziale. Altrove i movimenti sono meno evidenti. Wajahat Abbas Kazmi, un regista pakistano e attivista per i diritti umani che vive in Italia da quando aveva 15 anni, ma che è tornato nel suo Paese d’origine tra il 2010 e il 2014, sostiene che se in Pakistan qualcosa si sta muovendo per i diritti delle persone trasgender, «gli omosessuali invece continuano a vivere nascosti, il coming out non è un’opzione praticabile. Le poche associazioni attive si muovono sotto falso nome, ad esempio come associazioni di protezione sanitaria rivolte solo a uomini».
Omosessuale, Abbas Kazmi ha fatto il suo coming out in famiglia solo recentemente. Dopo questa decisione, i suoi si sono nuovamente trasferiti in Pakistan «per proteggere gli altri figli dagli influssi occidentali che, loro ne sono convinti, mi hanno fatto diventare gay».
Ludovic Mohamed Zahed, invece, è un imam franco-algerino omosessuale che a Parigi guida una comunità aperta alle minoranze sessuali: «La liberazione delle minoranze sessuali nelle cosiddette società arabe sta forse impiegando più tempo di quanto immaginato a imporsi e tuttavia sta succedendo. Anche se le religioni non sono il problema maggiore, dobbiamo sforzarci di costruire una rappresentazione più inclusiva dell’Islam».
Per lui non esiste una intrinseca avversione dell’Islam nei confronti dell’omosessualità – «per secoli è stato più semplice essere quello che oggi si definisce “trasgender” o “gay” in Medio Oriente che in Europa» – quanto piuttosto di analogia nella persecuzione delle minoranze tra i fascismi di ieri e i regimi islamisti di oggi: «Ma certo il terrorismo è una sfida che dobbiamo combattere, anche sul piano teologico».
Fortemente contrastati in patria, in difficoltà a vivere la propria identità in realtà familiari ostili (caratteristica a lungo sperimentata anche dai loro “cugini” in Europa e negli Usa), gli omosessuali musulmani o che vivono in Paesi a maggioranza musulmana sono una sfida non solo a sistemi di potere fortemente conservatori e sessisti, due cose che spesso vanno assieme, ma anche a un Occidente che fatica a concepire l’Islam come una realtà plurale, soprattutto sui temi del genere e della sessualità.

Pagina 99, 8 aprile 2017

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