Napoli è una città-mondo
circondata da una folla di città-paesi. Non si tratta di periferie,
si tratta di paesi che ingrandendosi a dismisura sono arrivati a
toccarsi tra di loro e a dare l’impressione di essere un’unica
città. Si può pensare con orrore a questi luoghi, ma si possono
pensare anche con clemenza, perfino con gioia. Sicuramente è
necessario pensarli. E questo è il punto dolente. Luoghi in cui
abitano tre milioni di persone sembrano ormai sistemati in una loro
naturale assurdità cui nessuno fa più caso. La mia è la percezione
di chi viene dal vuoto, di chi ama i paesi lucani e le mille curve
che si fanno per trovarli. I paesi lucani in molti casi sembrano
spostarsi, si allontanano quando stai per arrivare. Intorno a Napoli
nessun luogo è lontano. Molto spesso basta cambiare marciapiede e
sei in un altro paese. Ancora più spesso capita che cerchi un posto
e ne trovi un altro.
È il delirio di
costruire una città sotto un vulcano e poi girarci dentro mischiando
frutteti e capannoni, casolari e officine, le coste dei negozi, i
fiordi delle ville, i porti delle pompe di benzina. Da Salerno a
Napoli l’autostrada attraversa una città che si ferma solo davanti
alle montagne. Angri, Scafati, Nocera, Pagani: ogni luogo è vicino
alla sua polvere, ovunque puoi vedere che si è persa la faticosa
dolcezza della campagna. L’agro nocerino-sarnese è un immenso
campo di crisantemi in cemento armato.
Nocera superiore: case e
centri commerciali, cantieri, ponti, viadotti, officine, tutto
sparpagliato e incollato dalle mani di un cieco. Angri e oltre:
lettiera per cavalli, anziano seduto accanto alle sue stampelle che
si gode il traffico e i suoi dolori, casa ecocompatibile, L’outlet
dell’elettrodomestico, lavatrici sui marciapiedi, il parcheggio Tre
monelli, Si prenotano carciofi arrostiti, Outlet pastore, Caffetteria
Gesù bambino: sala interna-rosticceria-pasticceria. Pagani: la
statale, l’autostrada e la ferrovia attraversano il paese, si vive
in una sorta di tapis roulant, un movimento frenetico che non fa
nascere l’idea di fuggire. Appena si forma un buco subito arriva
un’auto a colmarlo. Torre del Greco, Portici, Ercolano e infine
Mariconda (frazione di Pompei): La pizza del poeta, Panuozzo più due
bottiglie d’acqua: 4 euro, Macelleria Al vero vitello. Gragnano:
Studio fotografico Fotoromanzo, Università della pasta, Pizzeria
Strapizzami, Parrucchiere Idee per la testa, Show Room Infissi.
* ** **
Ex voto nel Santuario della Madonna dell'Arco (Sant'Anastasia) |
L’autostrada tra Napoli
e Salerno a tratti sfiora il salotto delle case. Devi decidere subito
dove uscire, ogni minuto compare un luogo diverso, in effetti è
un’autostrada che si muove dentro una città vastissima. Esco a
Torre del Greco. C’è come un senso di festa dovuta all’adiacenza
di questi paesi giganti. È proprio uno stare insieme, ogni paese si
allunga verso l’altro ed è corrisposto in questa sua voglia di
fusione. Qui è come se fosse sempre sabato. Non ho mai trovato
un’atmosfera da lunedì mattina. Mentre faccio questo pensiero mi
sono accorto di essere a San Giorgio a Cremano. Ho solo voglia di
andare avanti senza fermarmi. Ascolto la musica e guardo fuori. Anche
il mio amico Angelo Pepe mi aveva detto che gli piace uscire fuori
perché fuori c’è l’ozono.
A un certo punto una meta
me l’assegno. Voglio andare a rivedere gli ex voto della Madonna
dell’Arco. Voglio fare un po’ di fotografie, ma arrivo che sono
quasi le due, la chiesa è chiusa. Mi fermo a mangiare qualcosa, per
una volta niente panino. Non ho fretta e neppure impazienze
particolari.
Mi vengono vari pensieri
nella testa. Mi sento contento di come gira la mia testa e la mia
giornata. Sono in giro da più di una settimana, sono contento che
fra qualche ora torno a casa.
Sono stato a Tursi, a
Stigliano e poi a Rosarno. Ho pensato lungamente alle differenze tra
la Campania e la Calabria. Ora mi viene un pensiero sulla Lucania.
Sono arrivato a Casoria quando mi arriva il pensiero che da queste
parti la vita si svolge tra l’asfalto e l’ultimo piano dei
palazzi, diciamo da zero a trenta metri. In Lucania lo spazio della
vita è più diluito, va dalla terra alla luna.
Ha ripreso a piovere.
Entro in un cimitero senza capire a quale paese appartiene. Per la
gente di questi posti ci sono sicuramente tante differenze tra un
paese e l’altro. Io mi confondo, quando sto qui non so mai dove mi
trovo, devo arrivare al centro di Napoli per sapere dove sono. E per
uscire dal labirinto l’unica possibilità è seguire l’insegna
verde dell’autostrada. Ogni volta che sono in questa zona
l’ingresso in autostrada mi dà il senso di essere scampato a un
pericolo.
* ** **
Napoli è foderata nel
rumore, dentro c’è ancora qualcosa, da fuori è un purgatorio di
palazzi, una teca di lampi orizzontali. Se prosegui sul rigo della
costa non c’è speranza di trovare il vuoto, la gialla solitudine
lucana. Sto passando dentro il vicolo cieco del fervore: Arzano,
Acerra, Afragola. La Campania delle pianure accoglie una fittissima
maglia di rumori, una perenne apocalisse sonora da cui sono esenti
solo i morti dentro i cimiteri. Prima ogni posto aveva un suo respiro
e per vederlo salivi le scale, ogni luogo era una stanza intima,
lingua cupa, mandibola feroce. Ora in giro c’è un’aria di
sconfitta, un rosario di facce innervosite da una smania senza fondo.
A Marigliano le strade sono molto dissestate: miserie pubbliche e
ricchezze private. È un susseguirsi di cancelli, cancelli dei
parchi, cancelli delle case. Nessuno si fida più di nessuno.
Afragola, perfettamente
congiunta con Casoria e Cardito, è in mezzo a una selva di paesi
giganti che insieme fanno ottocentomila abitanti. I paesi hanno due
malattie. Quelli più piccoli una malattia anginosa, con le vene che
si restringono e poi si chiudono. Quelli più grandi una malattia da
dilatazione, come se fossero dissanguati da un aneurisma squarciato.
Il cuore nero dell’Occidente è qui, sull’Asse mediano dove i
cumuli di spazzatura impediscono le fermate nelle aree di emergenza.
Ho una lieve e inspiegabile euforia, come se il disordine e l’incuria
tonificassero la mia anima.
* ** **
La strada del Miglio d'oro |
Napoli non ha un solo
cuore. È diversa e uguale, felicemente diversa, tristemente uguale.
Mi faccio il panino in
una salumeria a Chiaia. Il salumiere parla napoletano, ma è ucraino,
un altro esempio di una città che accoglie, porosa nella lingua e
nei muri. Una volta si parlava spesso della porosità di Napoli.
Anche gli aggettivi passano di moda. La lingua è un capo che si
indossa in certe stagioni e poi arrivano altre stagioni e altra
lingua.
Mi avvio verso la
periferia, non ho un’idea precisa di dove andare. Finisco all’Ikea
di Casoria. Ci sto poco, noto che oggi i visitatori sono soprattutto
anziani. L’occidente pensionato, l’occidente in convalescenza.
È ora di pranzo, decido
di andare a mangiare il panino verso il mare. La meta è Portici. Ci
arrivo abbastanza presto. Mi colpisce nella dittatura delle palazzine
una grande striscia di verde davanti alla Reggia. E poco dopo mi
colpisce ancora di più il blu del mare. Vedere il mare a Portici dà
un piacere particolare perché è il piacere di uscire dal cemento. E
io mi ero fatto l’idea che Portici fosse solo una selva di cemento.
Ero andato dietro la storia della grande densità abitativa. Non
avevo considerato che Portici è tra il Vesuvio e il mare, bellezza e
pericolo, la bellezza del pericolo, il pericolo della bellezza.
Mi siedo su una panchina
davanti al mare. Sto bene. Dopo il panino mi prendo anche un caffè.
Resto davanti al mare per un paio d’ore. Mi avvio verso Napoli per
la strada del Miglio d’oro. Passo per San Giovanni a Tedduccio e
poi per la zona del porto. Sensazione di una via parigina, ma con
l’eleganza di palazzi senza manutenzione, un po’ sgretolati, ma
fitti di antenne e panni stesi, gremiti di vita, di insegne, tufo e
alluminio, operai nostrani a riposo e stranieri che si arrangiano.
Faccio una puntata alla
sede di Eccellenze campane. Mi compro qualcosa e mi avvio verso la
stazione. Davanti alla Feltrinelli c’è una lunga fila di giovani.
Una ragazza mi dice che dentro c’è un rapper.
* ** **
La spiaggia del Granatello a Porticoi con la villa D'Elboeuf |
È ora di tornare a casa.
E tornando in Irpinia da Napoli sento che qui il buio ha una
consistenza diversa. A Napoli l’inverno è qualcosa che arriva da
fuori, ogni tanto, a folate. In Irpinia l’inverno è a casa, così
come io sto a casa mia solo nell’inquietudine. Non potrei vivere a
Napoli, non posso più vivere in Irpinia. Quello che però mi piace
della Campania è la possibilità di avere il folto e il vuoto, il
fregio e lo sfregio. E poi oggi il segreto non è abitare, abitare è
sempre una condizione complicata. E questo vale per i luoghi, ma
anche per l’amore. Oggi il segreto è attraversare, avere la
fortuna di prendersi un’ora di sole in un luogo dove non senti
l’infiammazione della residenza. Per me le uniche felicità adesso
sono queste: piccoli momenti in cui sfuggo alla pressione
dell’attualità, delle cose da fare. Piccoli momenti in cui non
sono nella mia testa e nella mia vita e nel mio spavento e nel mio
rimproverarmi sempre qualcosa.
La cosa bellissima di
Napoli e dintorni è che è tutto vicino, una densità di bellezza
che non ha paragoni nel mondo. E la meraviglia è che la bellezza
viene anche dall’affollamento, dal disagio, dalla mancanza di
manutenzione. La spiaggia del Granatiello a Portici è bella perché
ha delle case rotte sulla spiaggia. Una via della Sanità è più
intensa di una via a Chiaia. A Napoli e dintorni c’è la bellezza
firmata dei grandi gioielli dell’arte e dell’architettura e c’è
la bellezza diffusa, fatta dal popolo. La bellezza firmata appartiene
al passato. Quella popolare è una bellezza che continua a farsi e
disfarsi ogni giorno. È una sorta di miracolo che intreccia fregio e
sfregio. Un miracolo che si sente entrando in un bar a prendere un
caffè, davanti a un negozio di frutta, sulle scale corrose di una
chiesa. La questione del governo di quest’area, andando oltre i
municipi in cui è divisa, è una questione urgente. Bisogna far
capire al mondo che anche Caivano è interessante, anche Afragola. Il
centro di Napoli è ad Acerra, a Portici, ai Camaldoli. Il centro si
è nebulizzato, il cuore è ovunque.
* ** **
Non so se sono a
Casalnuovo, comunque noto un’enorme quantità di istituti
scolastici paritari e molti centri estetici di lusso. A Casoria la
piazza è una distesa di Suv con i vetri oscurati, parcheggiati in
doppia e in tripla fila. Caivano ti accoglie con una serie di
palazzine popolari dipinte in verde pisello. Guardo cose che si
possono vedere ovunque: un cane che dorme e un bambino col
telefonino. Gli esercizi commerciali più importanti sono in
periferia, in modo da servire più paesi. Casavatore è un luogo
sfilacciato, desolante, una teoria di case dimesse o mal costruite.
Poi palazzi a più piani e i soliti negozi, parrucchieri, alimentari,
abiti e motori.
Le insegne dicono che è
già Caserta, in queste chiese aperte sul catrame, il traffico è un
dialetto universale che affida il suo implacabile ronzio alle pietre
tostate dell’asfalto. Caserta dà la sensazione di una città senza
radici, un allegato alla reggia, invaso da negozi e macchinoni.
All’uscita di Caserta Sud file interminabili di camion. Un tir
davanti a me inizia a suonare all’impazzata, un altro trasporta i
Tic Tac, un intero camion pieno di caramelle alla menta:
impressionante. Sembra di stare su una pista da gioco per bambini,
con le sue curve a otto. Cartello con la scritta Interporto sud
Europa, piattaforma del continente Europa. Ho un senso di fastidio.
L’Europa che vedo è una giostra di camion. Su questa giostra ci
sto anche io.
Sono in macchina, avanzo
su una strada leggermente rialzata che taglia l’esteso ematoma
urbanistico di Aversa. Vedo un’infinità di tegole e pochissimi
alberi. Appena c’è un po’ di verde è sempre circondato da
grandi muri di cemento, già pronto per essere lottizzato, già
predestinato alla scomparsa. In questi territori è avvenuta una
battaglia tra il pieno e il vuoto e ha vinto il pieno, un pieno fatto
di automobili e di tutto quello che ruota intorno alle automobili. A
Santa Maria un piccione bianco, due cani che dormono, una pietra a
forma di fallo. Una strana scritta su un muro: comunisti = camorra,
la pubblicità di un centro commerciale che promette il risveglio dei
sensi. Uno spazio di scivoli e altalene presentato come parco per i
diritti dei bambini. Vago sulla Nola-Villa Literno, è un lungo
giorno senza miraggi, guardo le cose e non le porto dentro, le lascio
sparpagliate dove sono: tre vecchi incollati davanti a un bar, una
signora con la cipria negli occhi. Intanto ho già contato cinque
gatti straziati sulla strada, c’è sempre un frettoloso che li
uccide.
Gli abitanti riescono a
sopportare il peso di questi luoghi con un naturale disincanto che li
fa partecipare a questo perenne carnevale del caos senza prendersi
troppo sul serio. È come se avessero capito l’imbroglio che sta
sotto la cosiddetta vita sociale moderna. È il fondo filosofico di
questa gente, una sorta di renitenza alla leva del progresso: se ne
accettano gli arredi, le merci, si resta con un cuore adolescente,
pronto allo spreco più che all’efficienza. Non ho schiodato i
polsi dal volante, non ho nessuno che mi fa domande e mi faccio una
strana compagnia.
* ** **
La mia meta iniziale era
Tavernanova e sono finito a Casalnuovo. A un certo punto volevo
passare per Volla e mi sono trovato a Casavatore. Qui il paesaggio ha
le ore contate. La furia palazzinara si è un poco estinta, rimane
quella delle insegne. Paesaggio con insegne, questo potrebbe essere
il titolo della non periferia di Napoli. Non è periferia Afragola e
non è periferia Acerra o Frattamaggiore. Girando trovi il viadotto
dell’alta velocità, trovi l’Autostrada e l’Asse mediano, trovi
le strade fatte per raggiungere le case abusive, strade che finiscono
nel nulla oppure in un cumulo d’immondizia. Di sicuro ogni spazio è
presidiato da qualche essere umano o da qualche automobile. Solo nei
cimiteri c’è un senso di pace, ma devi stare al centro, la
periferia del cimitero confina sempre con le case dei vivi e quindi è
rumorosa anche quella. Ci vuole una speciale temperatura morale per
abitare da queste parti. Lo spazio è braccato, appena c’è un
angolo libero qualcuno provvede a occuparlo. Ecco l’esposizione di
divani sul marciapiede, il lavatore di vetri con tenda, il bar che
offre un’insegna che potrebbe essere avvistata anche dalla luna. La
campagna non è scomparsa, ma quando la vedi già sembra pronta per
un altro palazzo, una villa, un deposito di materiale edile, un
negozio che vende cerchioni per auto, un gommista, una pompa di
benzina. L’automobile domina il mondo, ma solo qui sembra entrare
negli scantinati, sale al secondo piano delle case, te la trovi
dietro le orecchie. Appena ti fermi, hai sempre qualcuno alle spalle.
Ci vuole una grande forza a non farsi bruciare i nervi. Ci vuole un
umore filosofico per non piantarsi in mezzo alla strada e gridare a
tutti che così non si può andare avanti.
Chi è andato via da
queste zone e ci torna ha sicuramente la sensazione che gli hanno
fatto sparire il paese da sotto gli occhi. Il palazzo dove sei
cresciuto non è più circondato dalla campagna, ma da altri palazzi.
Le persone si muovono
quasi tutte in macchina, ti senti un estraneo. Tornare a Casoria non
è come tornare a Trevico. In un caso trovi l’ematoma, nell’altro
senti l’angina del sangue che non arriva. Eppure io sento che
bisogna guardare con fiducia a questa nostra Regione. È un posto
intenso del mondo, c’è un’energia, un senso di resistenza. Poco
alla volta questi luoghi vanno riorganizzati, ci sono le forze per
farlo, ci sono tanti ragazzi, tante persone che conservano buon senso
e saggezza. È arrivato il momento di costruire un poco di vuoto in
questi luoghi. Fare dei piccoli cerchi sacri dove non bisogna
appoggiare nulla, nemmeno un’altalena. Queste zone devono essere
messe a lavoro per tornare paesaggio. Ci vuole un grande pensiero per
ritrovare spazio. Qui più che altrove sarebbero importanti il
telelavoro o le forme di trasporto comunitario. La sensazione che sia
tutto compromesso appartiene agli spiriti malati, agli scoraggiatori
militanti. Abbiamo davanti luoghi che esibiscono ferite provvisorie,
la guarigione verrà dalle nuove generazioni e dal fatto che a
dispetto di tutto questi paesi giganti non sono globalizzati o
possiamo dire che sono diversamente globalizzati. Comunque qui ancora
si respira un’aria viva, la vita è in corso.
* ** **
San Giuseppe Vesuviano |
Cimitero di Napoli. È la
prima volta che entro in un cimitero in macchina. Un cimitero molto
grande in un certo senso è come se annullasse la morte. In un
cimitero di paese il contatto coi morti è più ravvicinato, le
cappelle sono aperte, i morti sono in qualche modo ancora vicini.
Faccio una foto a un defunto che sembra il manichino di un negozio.
In un altro caso una cappella sembra un negozio di souvenir. Il luogo
è silenzioso, panoramico, forse sarebbe necessario metterci delle
panchine.
Dopo il cimitero è il
momento di una buona pizza, in una delle pizzerie più antiche della
città, uno di quei posti in cui Napoli dà il suo meglio: non sono
molti i luoghi al mondo dove si può mangiare così bene e a poco
prezzo. Tra l’altro incontro anche degli artisti venuti la scorsa
estate al festival paesologico di Aliano, che organizzo ogni anno. Mi
salutano con molto calore, l’affetto napoletano, quello vero,
spontaneo.
Lo stomaco è a posto.
L’umore non male. Il cielo parla della neve che si approssima sui
monti. Sta arrivando un poco d’inverno e non è male neppure
questo. Decido di andare verso i paesi vesuviani, ho perfino una meta
precisa, San Giuseppe. Ovviamente mi perdo, un paesologo viaggia
senza navigatore. Eccomi a Pollena Trocchia. Non mi scoraggio, è una
di quelle giornate in cui il mondo mi piace. E poi è sempre una
fortuna andare in giro, poter vedere, non avere impegni. Potrei anche
decidere di andare a Scafati, ad Angri oppure a Nola. Da queste parti
è tutto vicino.
Non ho il taccuino degli
appunti. Mi sono liberato dall’ansia di raccontare quello che vedo.
Ora sono a San Gennaro Vesuviano. E subito dopo a San Gennariello.
Sono vicino alla meta. Tra l’altro è anche una meta consumistica.
San Giuseppe è un paese di commercianti di abbigliamento. Molti
degli ambulanti in giro per il Sud si riforniscono qui. Coperte,
calze, pigiami, cuscini, lenzuola, maglie, gonne, tutto a prezzi
talmente convenienti che è difficile non riempirsi la macchina di
merce. Compro e non svolgo alcuna indagine. Ad occhio il paese mi
sembra più dimesso rispetto al mio viaggio di qualche anno fa.
Facile immaginare che se parlo con i commercianti mi diranno che c’è
la crisi, che i cinesi hanno rovinato tutto con la loro merce
scadente.
A me in certi giorni
piace restare in superficie. La realtà non deve svelarmi alcun
segreto. Mi interessa stare in mezzo alla giornata, sentire il tempo
che passa, far passare il tempo senza inseguirlo, senza la foga di
fermarlo. Questi posti intorno a Napoli fanno una grande simpatia,
sono posti a cui voglio bene. E mi sembrano forzate le
rappresentazioni tutte centrate sulla delinquenza. Non ho il
taccuino, ma c’è sempre il telefonino per immortalare qualche
squarcio curioso. Lo faccio con spirito lieve, un bar lussuoso, un
negozio fallito, una chiesa, tutto mi passa sotto gli occhi con la
sua grazia o la sua disgrazia e la differenza è lieve. Mi pare che
il tessuto del mondo abbia solo bisogno di essere indossato, toccato,
mostrato. Più che cambiare il mondo si tratta di vederlo, ma non
come turisti, si tratta di vederlo come si vede un vecchio zio o un
amico. Quello che conta è avere un filo d’affetto. A San Giuseppe
di fili ce ne sono tanti. Qui si capisce che vestire sette miliardi
di persone significa sette miliardi di mutande, che tra l’altro
molti cambiano ogni giorno. Io ne ho comprate solo cinque.
Il falegname proprio ieri
ha cominciato a costruirmi un nuovo armadio. Le nostre case
somigliano alla periferia di Napoli, luoghi gremiti, luoghi in cui si
ammassano cose e noi ci stiamo in mezzo. La differenza che in casa è
tutto tuo, mentre il mondo esterno non ti appartiene. E questo è un
punto a favore del mondo esterno. È un buon motivo per spingersi
fuori il più possibile. Il punto è abitare i luoghi degli altri,
attraversarli con clemenza. E sentire gli spazi comuni con un
sentimento di cura, di amicizia.
A San Giuseppe Vesuviano
non ho amici, ma posso dire che sento un’amicizia per il paese,
sento che mi appartiene, che dovrei andarci almeno una volta
all’anno. Mi pare assurdo che tanta gente non sia mai andata a San
Giuseppe Vesuviano.
* ** **
Giugliano: c’è più
gente qui che in tutti i paesi della provincia di Campobasso e
basterebbe questo per dire dello squilibrio folle tra il Sud dei
monti e quello delle pianure. Tutto è dedicato a nostra signora
automobile: rivendite lussuose e di seconda mano, carrozzerie,
officine, scuole guida, assicurazioni, gommisti, pompe di benzina. Un
negozio vende solo parabrezza, un altro solo copri cerchioni. L’altro
fuoco dei commerci è la famiglia: i negozi di bomboniere e di
mobili, le vetrine con gli abiti da sposa, i ristoranti per le nozze,
per le cresime e i battesimi. Gricignano, Sant’Antimo, Succivo li
ho visti altre volte insieme a Grazzanise.
Ora arrivo estenuato non
so come a un piccolo paese che ha due nomi, Cancello e Arnone, cerco
il mare e ancora non lo trovo. Ogni paese in verità è un mistero,
un soffio della vita diverso in ogni luogo. Ogni paese sarebbe da
vedere come una nicchia, un affresco, un santuario della geografia.
Ecco Castelvolturno, qui l’Occidente si è carbonizzato, aria
africana, insegne smisurate, la parola caseificio come un mantra.
Penso alle cose che ho visto, ai luoghi che ho visitato. Tutto mi
appare perso e irrecuperabile. Forse da questa idea nasce la
consolazione che non c’è spazio per ferire ancora un territorio
martoriato, e che, d’ora in poi, magari per errore, i suoi abitanti
saranno costretti a imboccare vie più virtuose. Ecco il villaggio
Coppola, dove il sogno del turismo ha generato una foresta di rovine.
In tutta questa zona puoi vedere l’impero romano alla rovescia:
tutto quello che fu gloria e conquista, adesso è fallimento
grattugiato sulle spalle di chi resta.
Mi fermo per il solito
panino, lo mangio mentre arrivo a Mondragone. Ora il disordine è
meno perentorio, posso avanzare verso il Garigliano. Cerco la
centrale nucleare, l’epicentro del guasto e degli errori. Il
pericolo se c’è non si vede, non si capisce se credere a chi
allarma o a chi rassicura, nel dubbio stacco dal ramo un’albicocca.
Comunque nella zona non si vede il disordine e lo scompiglio di cui
mi avevano parlato e quando cautamente arrivo al mare la spiaggia mi
pare vuota e felice, vedo una famiglia che gioca a bocce, due ragazze
che con aria stupida mi dicono di non fotografare: certe persone sono
le spie di un paesaggio rotto. Il Garigliano è la boa del mio
viaggio, posso tornare indietro a ripassare gli epigrammi del caos,
le lettere delle discariche e delle puttane, gli aforismi nei lampi
dei semafori e il racconto insulso dei palazzi. Oggi neppure so
tornare a casa, al mio paese non c’è più mia madre che accendeva
per me candele d’ansia. Sulle alture irpine non sento niente, anche
qui solo un mucchio di tegole. Guardo la ruggine sul palo di un
lampione, gli occhi di un cane zoppo, la busta con il pane che una
vecchia porta a spasso per il paese: cose inutili, intimamente
clamorose.
Pagina 99, 2 aprile 2016
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