9.4.18

Il colpo del XX secolo firmato “Koba” Stalin (Dario Falcini)


Un tratto dopo l’altro il lupo prendeva forma sul quaderno degli appunti, accanto ai resoconti di guerra e alle proposte dei membri del Politburo.
Appena calava un attimo la concentrazione Iosif Dzugasvili si ritrovava quasi inconsapevolmente a disegnare la sua bestia preferita, l’unica che potesse rappresentare la sua gioventù idrofoba.
L’aneddoto è rivelato da Simon Sebag Montefiore, che nel 2010 ha pubblicato per Longanesi la biografia Il giovane Stalin. Il volume narra i primi anni di vita del dittatore, nato in povertà nella Georgia del 1878. Furono i più formativi e i meno reclamizzati, fondamentali per capire l’animo paranoide di uno dei grandi protagonisti del Novecento.
Tra il racconto di feste lascive e battute di caccia alla pernice, di miseria e cospirazioni, lo storico britannico indugia su un episodio che si sarebbe poi rivelato decisivo: la rapina del giugno 1907 alla banca di Tblisi.
Non fu il primo, né l’ultimo colpo organizzato dal nucleo di combattenti che dieci anni dopo avrebbe incendiato l’Impero e cambiato il corso della storia. Fu il più clamoroso.
Allora Stalin aveva già sperimentato la deportazione in Siberia. Il grande esproprio, come era bene chiamare le rapine, fu pianificato nelle settimane precedenti, nel corso di due visite segrete a Lenin tra Londra e Berlino. “Koba”, il suo nomignolo del tempo, era un meticoloso uomo di pensiero e azione. Stava per diventare il più grande finanziatore della rivoluzione.
Quel giorno Tbilisi era zeppa di poliziotti e cosacchi, le cattive intenzioni dei bolscevichi erano note da un pezzo grazie al lavoro degli informatori. L’attacco fu condotto da una ventina di uomini vestiti da contadini, usciti da una taverna armati di Mauser e Browning.
Tra loro anche un feroce specialista del mestiere come Simon Ter-Petrosian detto “Kamo”, che nei preparativi dei giorni precedenti si era fatto esplodere una granata addosso ed era rimasto ferito a un occhio. A inaugurare le danze, scrive Montefiore, fu una bomba gettata dallo stesso Stalin dal tetto del palazzo del principe Sumbatov. Per alcuni istanti il fuoco echeggiò per tutta piazza Yerevan, prima che gli espropriatori prendessero possesso della diligenza giunta dalle poste cittadine e diretta alla sede centrale dell’istituto di credito.
Le informazioni che Stalin aveva scucito a un ex compagno di scuola erano precise: a bordo c’era l’equivalente di tre milioni e mezzo di dollari. Poco male se la maggior parte del bottino era tracciato, da ripulire prima di far circolare. Sul terreno rimasero tre morti e quasi cinquanta feriti.
Sul ruolo di Stalin nella vicenda ancora oggi gravano ombre: se nessuno mette in discussione che suo fosse il coordinamento dell’iniziativa, meno certa fu la sua reale operatività. Non per eventuali remore morali, che il futuro primo segretario mai esibì nei lunghi anni di dominio sul Pcus. La palestra di sopravvivenza imposta dagli zar oltre il Circolo polare artico e i tempi de “la borsa o la vita” avevano dato i loro frutti.

Pagina 99, 2 aprile 2016

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