Giorgio Bini fu maestro nelle periferie di Genova, pedagogista, militante e deputato (dal 1968 al 1979) comunista. Da giornalista collaborò assiduamente con la stampa comunista e di
sinistra, in particolare con “l'Unità” e con il “Calendario
del popolo”, e scrisse su riviste di pedagogia e di politica
scolastica. È morto nel 2015 nella sua Genova.
Nel suo impegno di
pedagogista si occupò con costanza di istruzione sessuale (diffidava del termine educazione) e di relazioni familiari (sul tema pubblicò per l'editore Teti una sorta di minienciclopedia). Nel
1967 e 1968 curò per il domenicale de “l'Unità”,
una rubrica al titolo Genitori,
da cui è tratto l'articolo che segue, esemplificativo del suo approccio
dialogico ai problemi pedagogici, della sua apertura mentale, del suo rigore e del suo garbo. (S.L.L.)
Nella rubrica della
corrispondenza coi lettori di un grande quotidiano del nord compaiono
periodicamente gruppi di lettere nelle quali giovani lettrici si
lamentano delle percosse che ricevono dai genitori, descrivendo
particolari raccapriccianti. Per lo più il castigo si compie entro
un preciso cerimoniale: la ragazza viene spogliata e picchiata
freddamente, quasi secondo un rito, dal padre, talvolta in presenza e
con l'approvazione della madre. Non sono sfoghi di collera da parte
di padri esasperati (anche se accade che qualcuno di essi scriva al
medesimo giornale per raccontare i... peccati della figlia a
giustificazione del trattamento che le viene inflitto), perché in
quel caso non si avrebbe l’insistenza nel cerimoniale, ma vere
manifestazioni di sadismo cioè di crudeltà dalla quale chi
l'infligge trae un piacere.
Certo, non ogni volta che
un padre picchia una figlia manifesta così una forma di
degenerazione psichica, ma bisogna riconoscere che una componente
sadica è spesso presente in questi episodi. E bisogna riconoscere
che il sadismo è uno dei più gravi pericoli per coloro, padri,
madri, insegnanti, sacerdoti che hanno a che fare coi giovani e si
trovano in una posizione di più o meno meritata superiorità nei
loro confronti.
Se poi vogliamo lasciar
da parte il sadismo e omettere di soffermarsi sul carattere che ha
avuto la storia della scuola, dall’antichità quasi ai nostri
giorni, di storia della crudeltà sistematica e organizzata da parte
degli adulti contro i fanciulli, resta il fatto incontrovertibile,
che una delle forme più usate di castigo, specialmente verso i
bambini ma, come si è visto, persino nei confronti di adolescenti,
sono le percosse. D’accordo i figli certe volte “fanno
disperare”, uno scapaccione non è la fine del mondo, ne abbiamo
presi tutti e non ci siamo rovinati; un bambino che riceva una
scarica di sculaccioni non cessa perciò di voler bene ai genitori
(e, come tutti sanno, di meritare sempre altri sculaccioni, a riprova
che quei metodi non sono poi così efficaci). Intanto resta il fatto
che in quelle punizioni si stabilisce un rapporto tra un adulto
che esercita una violenza e un bambino che la subisce.
Sarà anche una «sana
violenza» uno choc, e si può concedere, se accade una volta, se
sostituisce, appunto come una terapia d’urto, ogni altro mezzo
rivelatosi inutile per troncare un capriccio stizzoso che lo stesso
bambino piccolo vorrebbe interrompere senza riuscirvi. Ma quando
questi metodi sono continuativi, sistematici e costituiscono una
forma normale di relazione fra adulti e bambini, a parte la loro
inutilità, dimostrano che qualche cosa non va nel modo come una
famiglia intende e pratica l’educazione.
Non si vuol sostenere la
necessità di essere sdolcinati, né tanto meno di «darle tutte
vinte» ai figli, ma semplicemente l’importanza che l'autorità
(non l’autoritarismo!) dei genitori, fin da principio, si manifesti
e si eserciti in forme serene, tranquille, razionali, non capricciose
e si faccia sentire senza che ci sia bisogno di ricorrere
continuamente ai castighi e tanto meno alle percosse.
"l'Unità", 17 marzo 1968
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