Riporto qui un ampio
stralcio da un articolo denso di informazioni e interrogativi, di
certo utile anche a chi non condivide tutte le diffidenze
dell'articolista. (S.L.L.)
La Cina vuole dominare il
mondo? O vuole «costruire felicità, pace e armonia» per chi la
seguirà, come dice più o meno modestamente il suo presidente Xi
Jinping? C’è un processo in corso e sul banco degli imputati ci
sono la geopolitica di Pechino, la sua ascesa di potenza globale, i
suoi metodi di espansionismo industriale, culturale e ora anche
territoriale (le isole artificiali tra le Spratly e le Paracel), il
suo soft power ispirato da un Partito comunista rigenerato dal
nuovo uomo forte Xi. E già potere morbido nelle mani di un leader
forte appare come una contraddizione e un sospetto. [...] Nel 2017 Xi
ha messo le carte sul tavolo: «Entro il 2050 la Cina sarà leader
globale con la sua forza nazionale e la sua influenza culturale
intemazionale».
Quella cinese è una
lunga marcia che ha seminato di tracce il pianeta. Le più innocenti
sembrano gli Istituti Confucio, una rete che conta 1.500 centri in
140 Paesi. Sul modello del British Council ma inseriti in università
e scuole straniere con le quali hanno stretto joint venture. E
qui viene il dubbio che i cinesi si stiano infiltrando nel nostro
sistema di istruzione. [...] A proposito, diceva Confucio: «Se fai
un piano di un anno, coltiva il riso; se ne hai 10, pianta alberi; se
pensi a 100 anni, educa i bambini».
Nel mondo in via di
sviluppo peraltro ci sono molte più infrastrutture costruite dai
cinesi che Istituti Confucio. In Africa per esempio i tecnici e
consiglieri di Pechino sono arrivati negli anni Sessanta, mentre gli
imperi europei ammainavano le bandiere. Prima grande opera la
ferrovia tra Tanzania e Zambia: 1.860 chilometri tra montagne,
foreste, fiumi e sabbie mobili. Inaugurazione nel 1976. La diplomazia
cinese corre ancora in treno: nel 2016 è stata consegnata la linea
Addis Abeba-Gibuti, 760 chilometri finanziati al 70% dalla Repubblica
popolare, prima tratta completamente elettrificata del continente.
«Aspettavamo da cent’anni», ha detto il presidente di Gibuti.
L’Africa è strategica
per Pechino: ci sono circa 2 mila imprese cinesi, con oltre un
milione di manager, tecnici e lavoratori sbarcati dall’Impero di
Mezzo. L’interscambio Cina-Africa è oltre i 210 miliardi di
dollari, superiore a quello di Usa ed Europa, che si ritirano
commercialmente (non militarmente) per i problemi di corruzione dei
governi locali e le violazioni dei diritti umani. Salvo poi
interrogarsi impotenti di fronte all’onda dei migranti. Xi non si
fa scrupoli, ha stretto la mano al compagno satrapo Robert Mugabe
fino a quando è stato al potere nello Zimbabwe (ha anche donato
un’accademia di polizia chiavi in mano al suo governo). Oltre il
60% delle importazioni cinesi dall’Africa sono materie prime —
petrolio, carbone, rame; in cambio il mercato africano riceve
prodotti finiti made in China — macchinari e automobili, tessuti e
abbigliamento. Lamido Sanusi, ex governatore della Banca di Nigeria,
ha scritto al «Financial Times»: «Gli africani debbono abbandonare
la loro visione romantica sulla presenza dei cinesi, sono qui per
servire i loro interessi, non i nostri, e questa è l’essenza del
colonialismo che l’Africa ha vissuto con gli imperi europei».
Risposta dell’agenzia Xinhua: «Il termine neo-colonialismo è
usato dai Paesi occidentali per alleviare il dolore di fronte ai loro
interessi che svaniscono in un continente che avevano colonizzato;
con la sua crescente presenza in Africa la Cina è divenuta il motore
di una terra ignorata». Così Gibuti, dopo aver atteso cent’anni
la ferrovia, ha concesso ai cinesi una base militare, proprio davanti
all’analoga installazione americana. Espansionismo strisciante? O
accuse prevenute di noi occidentali che per vergogna storica e
disinteresse abbiamo lasciato l’Africa alla potenza in ascesa?
C’è un altro progetto
cinese, immenso e immaginifico: la Nuova Via della Seta. Nella
visione di Xi si tratta di rilanciare quel percorso millenario,
costruire «lungo l’antica via delle carovane una cintura economica
che aprirà un mercato di 3 miliardi di consumatori». Quelle parole
in mandarino, yi dai yi lu, sono state tradotte in tutte le
lingue del mondo, entrando nel linguaggio comune dei governi come One
Belt One Road, «Una Cintura Una Strada». Meglio dire molte
cinture e molte strade, perché ora la Cina lavora su 6 corridoi dove
vuole costruire autostrade, ferrovie per il trasporto delle merci,
gasdotti e oleodotti che attraverseranno l’Asia centrale, la
Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. E poi c’è la Via
marittima che dai grandi porti di Shanghai e Canton scende lungo il
Mar Cinese meridionale, l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale
il Mar Rosso, giunge nel Mediterraneo con scalo al Pireo e approda a
Venezia. Storicamente affascinante. Ma,intanto, il porto greco è
stato acquistato da un consorzio cinese e molti Paesi dell’Europa
centrale e orientale si sono fatti attrarre nell’orbita commerciale
di Pechino. La Cina, con l’arretramento dei ghiacci, pensa anche a
una via artica.
Ci sono molti dubbi sulla
sostenibilità economica dei piani e sui loro veri fini. Lo storico
Niall Ferguson ha detto a «la Lettura» che nell’ipotesi migliore
la Nuova Via della Seta è «un’idea romantica ma poco fattibile.
Dubito che i percorsi terrestri siano praticabili, troppa instabilità
politica. La via marittima invece è possibile, però resta da vedere
se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina
militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola
certezza: Xi ha lanciato un nuovo Grande Gioco geopolitico per creare
un mondo globalizzato nel quale tutte le strade portano a Pechino.
Sostiene l’accusa l’India, convinta che «Pechino sta cercando di
creare, e in parte ha già rea lizzato, una psicologia internazionale
che riconosca l'inevitabilità dell’egemonia cinese». Il Fondo
monetario internazionale avverte che le infrastrutture sono vitali
per lo sviluppo ma, investendo e prestando centinaia di miliardi
sulla Via della Seta, Pechino crea una schiera di Paesi debitori che
rischiano di essere schiacciati dal peso. Dei 68 Paesi nel progetto,
23 sono vulnerabili e tra questi Pakistan, Laos, Mongolia,
Montenegro, Gibuti, Maldive e Sri Lanka.
C’è un problema di
«rischio sociale» conferma Sameh El-Shahat, nato in Egitto,
cittadino britannico, a capo dell’agenzia di risk management
China-i. Sameh tiene seminari per i manager governativi a Pechino e
spiega che «gli investimenti da soli non bastano, la popolarità dei
cinesi all’estero è bassa perché la loro comunicazione non è
mirata sulla gente, le imprese parlano con chi è già convinto, con
i governi che hanno concesso la licenza di costruire. Così manca la
“licenza sociale” e questo porta al “rischio sociale” che può
minare progetti e collaborazione». Per El-Shahat non bisogna avere
paura «perché i cinesi a differenza degli europei non sono mai
stati colonialisti, per questo non li conosciamo; sono nuovi arrivati
e così li temiamo». Ecco la necessità del soft power. Ma quando è
la Cina a usarlo, si parla di sharp power, influenza aguzza,
autoritaria. Mentalità da guerra fredda, noi non vogliamo governare
il mondo, rispondono a Pechino. «Il problema è che la Cina ha
scarsa propensione a mettersi in discussione, un atteggiamento che al
contrario la farebbe accettare meglio da noi. Ha poca consapevolezza
dell'importanza di saper ricevere critiche costruttive», dice a «la
Lettura» Davide Cucino, sinologo, dirigente industriale e presidente
della Camera di Commercio italiana a Pechino
Tutto chiaro? Henry
Kissinger, nel suo Cina (Mondadori, 2011) ha teorizzato che
mentre la tradizione occidentale esalta gli scontri decisivi, la Cina
privilegia le tortuosità, il paziente e graduale consolidamento
delle posizioni di relativo vantaggio. Un concetto riassunto nel
weiqi, gioco da tavolo con 180 pezzi per parte. Nel weiqi
si perseguono diversi obiettivi contemporaneamente, non serve lo
scacco matto, basta un vantaggio minimo, che l’occhio non esperto,
non cinese, non saprebbe cogliere. Invasione morbida.
"La Lettura - Corriere della sera", 13 maggio 2018
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