Pavia, 30 novembre 1967 - Assemblea nell'Aula di Lettere occupata |
Mi pare che la cosa più
importante che sta avvenendo in questi mesi nella società italiana è
la scoperta, o la riaffermazione, della «assemblea». Nella storia
italiana degli ultimi secoli il principio dell’assemblea dal basso
non ha avuto una vitalità continuata ed una creatività organica. Le
forze dominanti in Italia l'hanno sempre temuta, ne hanno permesso
esemplari ridotti, hanno preferito mandare a morire, mobilitandoli
per la guerra, centinaia di migliaia di cittadini, ma non convocarli
frequentemente su tutto il territorio nazionale per «ascoltare e
parlare». Il Paese ha un debito verso i giovani universitari che
hanno posto questo tema con energia e autopadronanza.
Sorgono due problemi:
- che il principio dell’assemblea sia esteso dalle Università agli altri campi della scuola e della società nazionale, ai consigli di quartiere da istituire e moltiplicare nei 7810 Comuni; in tutte le mutue di assistenza e previdenza per il controllo del funzionamento e dei bilanci da parte degli assistiti paganti, in ogni comunità di carattere pubblico come ospedali, convitti, parrocchie ecc.
- che l’assemblea sappia organizzarsi bene, rispettando le minoranze, sfondando le discussioni lunghe e non pertinenti, concludendo sempre con concretezza, costituendo al suo interno commissioni di inchiesta e gruppi di studio: si sa che l'assemblea, se è caotica, violenta e inconcludente, genera prima o poi l'autocrazia.
Ci vuole, dunque, in
questo momento di tensione e di creazione, un orientamento che sappia
trarre tutti i vantaggi da questo movimento privo, in genere, di
violenza, e sappia da sé eliminare i difetti e i tranelli che
possono sorgere nello svolgersi del grande esperimento.
L’orientamento che noi
proponiamo è di portare la democrazia veramente a tutti e di usare
in questo lavoro le tecniche nonviolente. Sono due cose non facili
per l'inerzia storica e psicologica, per i pregiudizi che vengono dal
passato; ma chi meglio dei giovani può «contestare» il passato?
Ora nel passato ci sono due cose che noi, riformatori e non
riformisti, assolutamente contestiamo: l'una, che la democrazia possa
realizzarsi per un gruppo per una categoria di cittadini (dopo il
Risorgimento il potere fu nelle mani della classe borghese e
proprietaria), misconoscendo o conculcando il complesso dei diritti e
delle esigenze degli altri; la seconda, che soltanto con la violenza
si trasformino le strutture sociali, quando invece si vede che quanta
più violenza si è usata, tanto maggior tempo ci è voluto per fare
un passo verso una società veramente di tutti. Perfino il Gramsci,
che pur era partito da una posizione leninistica di violenza, arrivò
a valorizzare al massimo l’organizzazione del «consenso».
Se si vuole evitare oggi
la reazione e il fallimento di un inizio cosi felice e fresco, è
necessario — secondo il nostro parere — utilizzare i due principi
detti prima. Accanto al lavoro da compiere nel campo dell’Università,
puntando sul diritto allo studio, sull’assemblea, sul controllo,
sul dialogo attivo, per studiare più e meglio, bisogna che gli
studenti consolidino una posizione aperta ad interventi analoghi e
costruttivi in tutti i settori, per far valere «la realtà di tutti»
contro le cristallizzate, arbitrarie e settarie posizioni di potere.
E nello stesso tempo bisogna che diano a tutto il loro lavoro non un
indirizzo violento, che provocherebbe senz’altro una catena di
reazioni violente e prepotenti, con l'appoggio di molti, non ancora
guadagnati ma un orientamento di valorizzazione della «realtà di
tutti». Credano i giovani a chi ha visto nascere il fascismo! Il
loro lavoro può portare avanti qualche cosa che non si deve
arrestare mai, una rivoluzione aperta che guadagni simpatie e
solidarietà.
Questi nuclei costanti di
promotori, questi centri di azione stanno certamente all’opposizione
più profonda e più risoluta alla società attuale, che stenta tanto
a diventare «società di tutti», e continuamente riafferma il suo
dominio di parte e continuamente tiene i cittadini, e particolarmente
i giovani, nel pericolo di essere chiamati, inquadrati e mandati ad
uccidere e a morire in una guerra. Per questo il punto di partenza,
la leva per la costruzione ulteriore, è il rifiuto della guerra,
della sua preparazione, delle spese relative, della sua etica che
viene a noi dal passato, da un passato che gronda lacrime e sangue.
Un compito molto positivo
si prospetta agli studenti universitari se sapranno collocare il loro
movimento in questi riferimenti profondamente riformatori, e in un
tessuto che interessi tutti. Se «potere negro» (di cui si parla
molto in questi giorni) vuol dire piena partecipazione al potere
generale, è giustissimo; ma se dovesse essere il potere razzista dei
negri al posto del potere razzista dei bianchi, noi non possiamo
collaborare. Né possiamo collaborare con il razzismo e nasserismo
arabo.
E siccome le lotte
violente vanno avanti soltanto se ci sono dei duri capi, e così esse
lasciano spesso tiranni, le lotte nonviolente invece permettono di
mantenere la vitalità delle assemblee dal basso e dei liberi centri
promotori del rinnovamento.
I giovani in
«Azione nonviolenta», V, 3, marzo 1968 ora in Un'alta passione,
un'alta visione. Scritti politici 1935-1968 a
cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi. Il Ponte Editore, 2016
Nessun commento:
Posta un commento