«L'America non è un
Paese perfetto. Spesso è un Paese imbarazzante. Ma è un grande
Paese, ed è molto diversa dagli altri». Così scrive nella sua
conclusione di Happy Days. Questa è l'America David Brooks,
grande giornalista e autorevole editorialista americano.
Naturalmente, Brooks parla del suo Paese, gli Stati Uniti, per i
quali si continua a usare, in nome di una inveterata semplificazione,
o appropriazione, il termine America. Brooks esamina gli Stati Uniti
dall'interno, e penso che in un momento di crisi a livello mondiale
dell'immagine degli Stati Uniti, o addirittura di messa sotto accusa
del cosiddetto impero americano, valga la pena di ascoltarlo.
Molto opportunamente,
Brooks cita uno degli studiosi radicali più significativi negli
Stati Uniti, Sacvan (pensate, un rimando esplicito a Sacco e
Vanzetti) Bercovitch: «Solo "America", fra tutte le
designazioni nazionali, assume la forza dell'escatologia e dello
sciovinismo assieme». In altre parole, fin dagli inizi della storia
americana si fondono il verbo idealistico - sia politico sia
religioso - di una salvifica verità e la tentazione non soltanto di
farlo gelosamente proprio, ma di propagarlo nel mondo. Il più
rappresentativo poeta americano, Walt Whitman, dopo la fine della
guerra civile sebbene turbato da una congiuntura persino cupa del suo
Paese, scommetteva fiduciosamente sul futuro, dichiarando che la
democrazia americana sarebbe divenuta «l'impero degli imperi,
creando una nuova storia». L'ottimismo autenticamente democratico e
popolare di Whitman, nella prospettiva di Brooks, conserva nonostante
tutto una sua validità, senza per questo cancellarne le
contraddizioni.
Brooks compie un viaggio
attraverso gli Stati Uniti e, ora che essi paiono soffrire di un
momento di «declinismo», ci addita le varie facce di «un Paese
segmentato». Non si può lecitamente delineare un'immagine univoca
del Paese, e il merito di Brooks sta nel raffigurare la molteplicità
della società urbana nei suoi particolari più ordinari, o nello
spingersi a Ovest nelle piccole comunità rurali. Proprio la
rappresentazione della quotidianità sostanzia il libro, fino ad
episodi in apparenza banali ma esemplari, come la mania di chi si
imbarca su un aereo tenendo stretto fino all'ultimo il cellulare,
talismano rassicurante.
Per Brooks, la scommessa
americana sull'avvenire si riconduce ancora al messaggio di Withman,
anche se, confessa, «abbiamo difficoltà ad adattarci alle
circostanze della realtà». Ma esiste un percorso tragico nella
storia degli Stati Uniti, fin dalla guerra civile e dall'assassinio
del presidente Lincoln. Non è un sinistro privilegio americano, sia
ben chiaro, ma scandisce momenti cruciali della sua storia. Sotto
questo profilo, un contributo prezioso ci viene da Omicidi
americani, una raccolta di servizi giornalistici, dovuti tutti a
premi Pulitzer, curata da Simone Barillari e con una efficace
prefazione di Giancarlo De Cataldo. Si inizia già nel 1924, quando
alcuni rapitori uccidono un giovane mentre il facoltoso padre tenta
di pagare il riscatto. Naturalmente, i due capitoli più stringenti
riguardano l'uccisione del presidente Kennedy e la strage nella
scuola di Columbine, «strage dell'innocenza americana», perché
proprio i valori additati da Brooks vengono barbaramente strangolati.
Michael Moore ne ricaverà un film culto.
L'assassinio di Kennedy
rimane avvolto dal mistero, mentre la strage della Columbine tradisce
una scelta insieme gratuita e sinistramente sacrificale, perverso
stravolgimento di quella dimensione religiosa che Brooks sottolinea
quale costante peculiarmente americana.
Come guarda l'Europa ai
miti americani? Caterina Ricciardi e Sabrina Vellucci propongono una
serie di penetranti contributi in Miti americani oggi, ove si
indaga sull'immaginario
dell'intero continente americano. Qual è il rapporto tra storia e
mito, la loro ibridizzazione, «dalla sfera domestica allo spazio
pubblico». Andiamo dal leggendario bandito Billy the Kid al sogno
mitico dell'emigrazione, oggi più che mai al centro della società
«etnica» degli Stati Uniti, fino alla necessità di pervenire a
un'identità non condizionata dai miti o dalle imposizioni della
cultura dominante. Suggerirei di affiancare questo ricco volume a
Identità americane: corpo e nazione, un'altra raccolta di
saggi a cura di Camilla Cattarulla. L'originale prospettiva di questo
volume si incentra su un'indagine figurativa che, partendo dall'esame
di dipinti, fotografie d'arte, album di famiglia, mette a fuoco «il
corpo fisico quale metafora di una nazione». Questo immaginario
visivo rimanda alla cultura, alla società, alla molteplicità
etnica, dagli indiani agli afroamericani.
Diamo spazio ai
viaggiatori, ai moderni esploratori europei degli Stati Uniti. Penso
a due libri per molti versi paradigmatici: Viaggio al termine
degli Stati Uniti, di Flavio Baroncelh, e Diario americano
di Giulio Sapelli. Entrambi i volumi, piacevolmente leggibili,
rivelano da un lato la preziosa disposizione a leggere, direi a
conquistare, la realtà americana, dall'altro, nel caso di
Baroncelli, a distanziarla. Sapelli apprezza giustamente la
visibilità del sistema americano, fino magari alla corruzione o al
cattivo governo, in contrasto con la «patologia invisibile del
sistema» peculiare dell'Europa. Il sottotitolo del libro di
Baroncelli si indirizza al perché «gli americani votano Bush e se
ne vantano». Domanda ambiziosa e provocatoria cui ho trovato,
francamente, una risposta, più umorale che politica, ma ho
apprezzato la rappresentazione diretta, immediata, deliberatamente
partigiana, di quel Paese segmentato, limpidamente raccontato da
Brooks. Non esiste una sola chiave per capire gli Stati Uniti -
scusate l'America.
“Tuttolibri – La
Stampa”, 26 agosto 2006
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