Aleksandr Blok (San
Pietroburgo, 28 novembre 1880 – 7 agosto 1921) il maggiore poeta
simbolista russo – era nato a Pietroburgo nel 1880. Esordì con il
ciclo Ante lucem (1898-1900), di cui facevano parte poesie
pubblicate più tardi nel volume Versi sulla Bellissima Dama
(1905). In questi versi Blok, seguendo le dottrine del poeta filosofo
Vladimir Solovjov (1853-1900), canta la quintessenza umana della
femminilità eterna, invoca la Sposa celeste in un rapimento
estatico, saturo di sensualità, di teneri sospiri, di sensazioni
ineffabili.
Il fallimento della
rivoluzione del 1905, in cui aveva creduto, infrange nel poeta le
speranze di un rinnovamento spirituale e politico della società, e a
partire dal 1906 la sua voce rivela delusione e amarezza. L’ironia,
unita a un sentimento di rivolta e di insofferenza, trova posto nella
sua anima ormai libera dall’estasi e dai sogni giovanili.
Nel dramma La baracca
dei saltimbanchi, rappresentato a Pietroburgo nel 1906, Blok
deride con spietato sarcasmo, in un susseguirsi di immagini
grottesche e illusorie, le sue precedenti esperienze mistiche. Nei
versi del ciclo Il mondo terribile, la Sposa celeste è ormai
una creatura terrena, una prostituta. Pietroburgo è uno squallido
aggregato di bettole fumose e sporche, di vecchi straccioni
mendicanti, di vagabondi, di relitti alla deriva. Nel dramma La
sconosciuta il sacro tempio si trasforma in una casa di
tolleranza.
L’amore ideale,
nebuloso, ormai svanito, lascia il posto all’amore per la Russia,
che Blok vede come entità concreta e divina, come una creatura
sofferente. «La Russia resta sempre la stessa: un’entità lirica»,
scriveva alla madre nel 1909, e aggiungeva: «Qualunque cosa accada,
essa resterà sempre la Russia dei miei sogni». Da questo amore,
dall’entusiasmo suscitato in lui dagli avvenimenti del 1917 e
soprattutto dalle giornate di Ottobre, nacquero due poemi: I
dodici e Gli Sciti, entrambi scritti nel 1918.
Blok sentì la «musica»
della Rivoluzione, presagì l’ineluttabilità del cataclisma che
avrebbe spazzato via tutte le ingiustizie del «mondo terribile»,
del vecchio mondo. Nei Dodici sono mirabilmente amalgamate le
emozioni e i presentimenti dell’imminente lotta sociale. Nei giorni
in cui lavorava a questo poema, il poeta incontrò alcuni noti
esponenti del Partito comunista e così si espresse con loro: «A voi
interessa la politica, il partito, mentre noi poeti cerchiamo l’anima
della Rivoluzione. Essa è stupenda, e qui siamo tutti con voi».
A confermare il carattere
«sacro» della Rivoluzione appare in chiusura l’immagine di
Cristo, quasi in contraddizione con tutto il contenuto del poema.
Cristo che avanza davanti alle dodici guardie rosse, simboleggianti
gli apostoli, è un puro simbolo poetico che sta ad esprimere la
benedizione etico-religiosa della Rivoluzione da parte del poeta.
Tutto il poema è in movimento continuo, movimento irrefrenabile che
ha un’unica direzione: «Avanti!». La ricchissima gamma di
contrasti lessicali, la sequela di immagini come lampi di magnesio,
le dissonanze, gli elementi polifonici che si fondono in un’armonia
superiore, tutto ciò concorre a creare quel ritmo incalzante,
terribile e continuo, che si fa particolarmente solenne nelle strofe
finali. In questa creazione il genio musicale e pittorico di Blok
raggiunge il vertice. In seguito, svanito l’ardente entusiasmo dei
primi mesi della Rivoluzione, oppresso e deluso dall’arido e
pedantesco apparato burocratico che lo circondava, avvilito da
difficoltà e incomprensioni, il poeta si abbandonò a un cupo
pessimismo. Stanco e isolato si spense il 7 agosto del 1921.
Dalla rivista letteraria
on line “L'Ombra delle parole”, 28 settembre 2014
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