21.6.18

Sikhismo. Una storia di separatezza e di incomprensione nell'India inventata da Gandhi e Nerhu (Giampaolo Calchi Novati)


Il tema di questa vecchia recensione e del libro cui si riferisce, il Sikhismo, sembra - nella congiuntura attuale - “fuori campo”, ma è assai probabile che le politiche recenti del governo indiano, sempre più ispirate a un identitarismo indù, sebbene fino ad oggi soprattutto antimusulmane, eccitino altri odi e rancori che il laicismo di Gandhi, di Nerhu e del partito del Congresso non aveva saputo spegnere.
Ho aggiunto, come scheda, alla recensione la voce Sikhismo, tratta dal Dizionario delle Religioni Orientali, Vallardi 1993. (S.L.L.)
Amritsar, Il Tempio d'Oro Sikh
Che rapporto ci può essere fra la città «perfetta» progettata da Le Corbusier, puro prodotto del razionalismo occidentale, e il «comunalismo» indiano? È una contraddizione che fa parte del quadro. Nel contenzioso che oppone i Sikh del Panjab al governo di Delhi e al vicino stato di Haryana un posto di rilievo ha la contesa sull’attribuzione di Chandigarh, commissionata da Nehru nei primi anni ’50 al famoso architetto svizzero per dirimere un problema di rappresentatività che invece a più di trent’anni di distanza si trascina ancora irrisolto in una condizione di guerra strisciante.
A ristabilire l’equilibrio, e a ricordare che siamo pur sempre in India, c’è la puntigliosa difesa della sacralità e immunità del Tempio d’Oro di Amritsar, in cui i Sikh vedono concentrata la loro identità.
I Sikh sono una delle tante comunità che si confrontano con le strutture istituzionali dell’India, immensa patria di tutte le razze, di tutte le religioni e di tutte le culture. Ma, non foss’altro per aver legato il loro nome, e la loro causa, ai fatti drammatici del 1984 - prima l’assalto dell’esercito al Tempio d’Oro con l’eccidio che ne seguì e poi l’assassinio di Indirà Gandhi ad opera di alcuni Sikh della sua guardia personale, che avevano voluto così vendicare il sacrilegio - essi costituiscono un caso a sé, forse il più grave. Per certi aspetti potrebbero fungere da sintesi a favore della conciliazione, anche perché il sikhismo è una fede nata nel XV-XVI secolo con il proposito di rinnovare l’induismo assorbendo i valori fondamentali dell’Islam, ma il loro presentarsi come una comunità religiosa e non come una casta o un’etnia culturale rende incompatibile la loro rivendicazione di autonomia con il carattere laico dell’India come concepita dai padri fondatori.
Si spiega così questa storia di separatezza e di incomprensione, che Marco Restelli ha ricostruito combinando con abilità la ricerca dotta e il gusto dell’attualità (I Sikh fra storia e attualità politica, Edizioni Pagus, 1990). Nessuna concessione al folclore. I turbanti, i capelli lunghi e le barbe dei Sikh, la loro predisposizione professionale all’arte della guerra, il dinamismo di un popolo che ha fatto del Panjab l’avanguardia della «rivolùzione verde», vero «granaio» dell’India che si è lasciati alle spalle i tempi delle carestie di massa, sono studiati sulla base della tradizione in senso antropologico, delle vicende della politica e dell’organizzazione sociale, dell’influenza e dei calcoli del colonialismo britannico. I vari accorgimenti costituzionali e territoriali che sono stati adottati non hanno avuto fortuna. I Sikh sono rimasti lì con la loro insoddisfazione e con le loro aspirazioni, bersagli fin troppo comodi delle frustrazioni di altri gruppi, e degli indù anzitutto, con cui vivono a stretto contatto nel Panjab e nella stessa capitale dell’Unione. Hanno fallito un po’ tutti: i moderati come gli estremisti; e hanno fallito i capi del governo centrale: Indira Gandhi fino al sacrificio della vita, suo figlio Rajiv rimettendoci il potere.
All’origine di tutto c’è sempre l’idea di India che Gandhi (il Mahatma) e Jawaharlal Nehru hanno imposto al momento dell’indipendenza. Un’idea che in realtà non potè essere realizzata nella sua assolutezza a causa della volontà scissionista dei musulmani che diede vita al Pakistan. Il fatto che l’India «universale» dovesse accettare la spartizione dell’ex-Raj britannico per accontentare un nazionalismo che si richiamava espressamente ad una fede religiosa era qualcosa di più di una semplice amputazione territoriale. Era la negazione di tutta una ideologia e del solo programma che avrebbe forse potuto consentire all’India un futuro di pace. Un’utopia? Un’astrazione concettuale? La tragedia dell’esodo, l’atto di violenza contro Gandhi, campione inflessibile della non-violenza, la vertenza per il Kashmir segnarono fin dall’inizio l’esistenza dell’Ihdia, che non avrebbe mai più trovato la certezza di sé e dei propri destini.
La sola concessione che i Sikh riuscirono a strappare fu una ridefinizione dello stato in cui essi hanno il loro habitat secondo criteri linguistici. La religione in quanto tale non poteva essere considerata a pena di mettere in crisi lo Stato indiano nella sua interezza. La divisione, decisa nel 1966, ha permesso ai Sikh di diventare maggioranza nel Panjab, ma ha aperto un’interminabile controversia con l’Haryana, in cui sono stati raggruppati i distretti di lingua hindi e di fatto a maggioranza indù: Chandigarh, che sorge proprio sul confine, è assurta singolarmente a «test» di un conflitto che ha via vìa alimentato la radicalizzazione del movimento «nazionalista» dei Sikh, il terrorismo, l’instabilità esportata in tutta l’Unione e persino all’estero, dove molti Sikh hanno trovato rifugio riproducendo il loro stile e i loro miti.
Dopo i fatti del 1984 l’integrazione dei Sikh nello Stato indiano è diventata problematica. In passato i contrasti sono stati esasperati da speculazioni che non riguardavano direttamente le richieste dei Sikh e che sono ricadute sui loro autori oltre che su molte vittime innocenti. Ma mentre in tutto il mondo si sta ridiscutendo la funzione dell’etnicismo e delle religioni nella vita associata, la «minaccia» dei Sikh si fa reale e assume una dimensione che si collega in qualche modo con tendenze che trascendono la stessa India.

"il manifesto", 1 giugno 1990

Sikh a Vicenza
SCHEDA
SIKHISMO
Religione fondata dal guru Nanak (1469-1538) nella regione indiana del Punjab. Influenzato da Kabir, fautore dell'incontro tra islamismo e induismo, Nanak predicò una fede rigorosamente monoteistica, opposta a qualsiasi forma di idolatria. Dio è l’unico creatore dell’universo, dotato degli attribuii di eternità, beatitudine, onnipotenza. A Nanak si sono succeduti altri dieci guru a capo della comunità dei sikh (discepoli), quali intermediari fra Dio e i seguaci. Il testo sacro dei sikh, l’Adi Granth fu iniziato dal quinto guru Arjan nel 1604 e terminato dal decimo guru Govind Singh all’inizio del XVIII sec. Quest'ultimo diede un’impronta militaristica alla setta, al fine di difenderla dall'oppressione dell’imperatore moghul che intendeva convertirne i seguaci all’islamismo. Il sikhismo non riconosce il sistema castale, ma crede nel karma e nella reincarnazione. Sarà possibile liberarsi dal ciclo delle rinascite perseguendo la pace e l’amore universali. I sikh si autodefiniscono khalsa (puri) e hanno cinque segni distintivi: kesh (capigliatura folta raccolta nel caratteristico turbante), kaccha (pantaloni corti alle ginocchia), kara (un braccialetto di ferro), kangha (un pettine in legno) e kirpan (un piccolo pugnale su cui vengono annodati i capelli). Il centro del culto sikh è costituito dal Tempio d’Oro di Amritsar, innalzato dal quarto guru Ram Das nel 1577 su permesso del sovrano moghul Akbar.

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