Ho trovato, tra i
ritagli, questo necrologio di Cesare Garboli - molto acuto. Alle
opere che Alberto Asor Rosa opportunamente cita mi piace aggiungere
il suo Molière, una
magnifica traduzione di 5 commedie del drammaturgo francese con
annessi saggi di lettura. Notevoli, in particolare quelli sul
Tartufo, che nella lettura
del critico diventa l'uomo politico nella sua fraudolenta vocazione
di guaritore, e sul Malato immaginario,
l'uomo nevrotico che del potere diventa complice. (S.L.L.)
Quando l' ho conosciuto,
Cesare Garboli era Cesarino. Uno della cerchia giovanile di Sapegno;
ma non uno qualunque: il più brillante e promettente. Pochi
rammentano, credo, che lo scritto d'esordio di Garboli è un
ponderoso e dottissimo intervento su Struttura e poesia nella
critica dantesca contemporanea (“Società”, 1952), in cui
discuteva con precoce autorevolezza le posizioni crociane sulla
Commedia alla luce degli orientamenti storicistico-gramsciani
allora in auge. Più sapegniano di così. E infatti Sapegno molto lo
amava e, caso rarissimo, fece di tutto per tenerselo accanto.
Qui cade la prima, forse
la più decisiva, delle scelte garboliane. A Cesare non gli andava,
non gli andava proprio di fare il professore universitario. Anzi, non
gli andava proprio di fare «il critico»: uno della corporazione,
vincolato da regole e statuti precisi. Prigioniero di un amore
furioso per la letteratura, soprattutto quella vivente (anche se non
dimentico di quella antica), oppure ammalato di quel morbo
irrimediabile, che consiste nel mettere al centro di ogni cosa la
pratica del testo letterario e della poesia (nemmeno lui, scommetto,
seppe mai bene se fu l'uno o fu l'altro), preferì andarsene libero,
o il più possibile, libero, sulle strade della lettura e della
conoscenza.
Tutti penseranno a questo
punto al suo lunghissimo rapporto con “Paragone”, scuola di
metodo e di gusto, e con Roberto Longhi e Anna Banti. Giustissimo. Io
non ometterei di ricordare, in una fase precedente, che s' interpone
fra gli anni universitari e la prima maturità, quello con Niccolò
Gallo, più anziano di noi di diversi anni, critico finissimo, che
riuscì a combinare la sua naturale sapienza di lettore con impegni
apparentemente modesti, come le rassegne annuali della narrativa
italiana, apparse a lungo su “Società” e lette e discusse fra
noi con avidità.
Veniamo al dunque. Cesare
Garboli non ha mai scritto quel che si dice «un libro». Ha scritto
saggi, articoli, recensioni, ritratti, prefazioni (genere nel quale,
come dirò, eccelse). Di tanto in tanto, abbastanza avaramente, li ha
raccolti in volumi. I tre secondo me più importanti sono
significativi fin dai titoli: La stanza separata (1969),
Scritti servili (1989) e il recentissimo Pianura proibita
(2002). Aguzza e penetrante come il suo profilo, la sua penna, quando
è nel pieno dell'estro, entra nella realtà viva dei testi e la
scava come pochi altri hanno saputo fare nei cinquant'anni che ci
stanno alle spalle.
Garboli non è un lettore
«analitico»: non scompone il testo in frammenti, non offre
un'imponente documentazione citazionistica per arrivare alla sua
verità. È un lettore fortemente «sintetico», che alla verità,
alla sua verità ci arriva per forza di argomentazione. Un problema
sta al centro della critica garboliana: il rapporto fra letteratura e
vita. Una volta scoppiò una rispettosa ma di fatto furibonda
polemica fra lui e Franco Fortini, che lo accusava, a proposito della
pubblicazione da lui curata dell'inedito Journal di Matilde,
figlia di Alessandro Manzoni, morta giovanissima di tisi, di aver
letto una «tranche de vie», come un «romanzo». Aveva ragione
Garboli a protestare. Ma nella sua protesta troviamo, a guardar bene,
una chiave rivelatrice, che porta lontano nell'osservazione del suo
metodo e dei suoi interessi più profondi. Garboli scrive che la
realtà del mondo sensibile e la realtà dell'arte «non si trovano
mai disunite: i loro sguardi non si staccano mai, sono sempre
incantati, appiccicati l'uno all'altro da una fascinazione reciproca
che non ha mai fine» (Pianura proibita, pag. 184). Ecco, io
penso che Garboli sia stato lungo tutto il corso della sua vita
«fascinato» da questa linea di giunzione fra la letteratura e la
vita, che non si risolve mai nel predominio dell'una sull'altra ma se
mai continua a rimandarsi l'una con l'altra, suscitando echi
infiniti. Questo spiega, mi sembra, perché la forma tipica del
saggio garboliano sia il ritratto, e, ancor più, quella forma
precipua del ritratto, che è la prefazione; e perché in lui agisca
spesso potentemente, accanto alle suggestioni critiche indotte dal
testo, la conoscenza diretta dell'autore Longhi, Penna, Delfini,
Soldati, La Capria; e, fra le donne, i ritratti bellissimi (che
meriterebbero un discorso a parte), di Banti, Ginzburg, Morante. Le
due conoscenze, invece di restare separate, si fondono.
La «servilità»
garboliana è questo mettersi al servizio della conoscenza di un
testo visto da tutte e due le parti, non da una sola. Certe volte
questo narcisistico impulso a smontare la macchina del testo, pur di
arrivare a una verità collocata al di là, in un altrove
difficilmente localizzabile (non più letteratura, ma neanche vita,
forse destino), arrivava fino al punto di fargli mettere in
discussione il canone stesso imposto dall'Autore, anche dal
MegaAutore. È il caso dell'edizione nei Meridiani delle Poesie e
prose scelte di Giovanni Pascoli, segmentate e ricomposte secondo
partizioni e un disegno, che non sono più quelli del poeta, ma
quelli dell'interprete. Si leggono egualmente con gusto grandissimo,
a patto di non cercarci la storia della poesia e dell'identità
pascoliana ma quella di ciò che Garboli pensa della poesia e
dell'identità pascoliana.
Negli ultimi anni Cesare
Garboli era tormentato da una sua personale ricerca d'identità. Ho
riletto con commozione lo scritto Pianura proibita, che dà il
titolo alla raccolta omonima e la chiude. Scritto e letto in pubblico
alla fine del 2001, può forse considerarsi, ahimè, il suo
testamento. Garboli vi ragiona, anche tornando esplicitamente alle
scelte dei suoi anni giovanili, della propria difficoltà a
riconoscersi in un ruolo. Non critico; e non scrittore. E non
scrittore, perché, pur dotato di una fervidissima immaginazione, non
pensò mai, non fu mai spinto a farne il trampolino per un lavoro
creativo fatto di parole (verso il quale anzi provò sempre «un
oscuro sentimento di repulsione»). Il suo destino, dice, ebbe una
svolta quando gli capitò di metter le mani sui fondi archivistici
dimenticati di uno scrittore chiamato Antonio Delfini. La sua
immaginazione cominciò allora a lavorare furiosamente al compito di
«dare compimento a un destino rimasto incompiuto». La stessa cosa
gli capitò con Matilde Manzoni. E, più o meno, con Giovanni
Pascoli. Creazione dalla creazione: potrebbe esser questa la formula
per imprigionare l'irrequieto e inclassificabile scrittore, arrivato
alla fine a riconoscersi nell' altro da sé più di quanto non avesse
mai voluto ammettere prima. La quiete dopo l'inquietudine? Forse, le
ultime parole di Pianura proibita, rilette oggi, mandano questo
suono: «Gli arabi chiamano pianura proibita quei territori dove lo
stile pianeggiante della semplicità nasce dopo un lungo sforzo, e
testimonia di laboriose e difficili prove. Non mi dispiacerebbe
finire i miei giorni camminando da solo per una di quelle pianure
ignote, dove passano poche anime vive».
“la Repubblica”, 13
aprile 2004
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