Goffredo Parise detestava
la parola poesia. E non amava neanche, per definire la sua
produzione, il termine letteratura. Preferiva parlare di arte,
secondo quanto testimoniò Gianfranco Folena durante un incontro di
studio tenutosi a Treviso due anni fa: arte e basta, quasi che
ulteriori distinzioni dovessero risultare fatalmente limitative, se
non addirittura fuorvianti.
La sua arte, comunque, fu
certamente la prosa: forse il solo Moravia, nella nostra tradizione
recente, è un prosatore puro quanto lui, secco e scabro come sempre
lui da Il ragazzo morto e le comete fino ai Sillabari
riuscì ad essere. Eppure negli ultimi mesi di vita, fra la primavera
e l'estate del 1986 (Parise morì il 31 agosto di quello stesso
anno), lo scrittore si dedicò come ora apprendiamo da Giosetta
Fioroni che ha concesso a “Mercurio” la pubblicazione degli
inediti proprio alla scrittura in versi, racchiudendo in dieci poesie
o poco più le sue estreme energie creative, come a saldare un conto
aperto quasi quarant'anni prima.
Nel 1948, infatti, il
diciannovenne Goffredo aveva dato da leggere all' amico editore Neri
Pozza la prima parte di una lunga composizione, mista di prosa e
versi, intitolata I movimenti remoti. Neri Pozza,
evidentemente, nicchiò; e del resto lo stesso Parise, ormai preso
dalla stesura di quel Ragazzo morto e le comete che sarebbe
divenuto nel 51 il suo romanzo d'esordio, dimenticò ben presto
l'esperimento giovanile. Anzi lo smarrì, per essere più precisi. E
di esso ci restano ora pochi e brevi frammenti, sopravvissuti
autografi fra i brogliacci di un disordinato archivio personale.
Ma quei frammenti,
testimoni inopinati di una preistoria destinata alla sepoltura, erano
esattamente per la maggior parte poesie. E almeno uno dei tre
pubblicati nel marzo scorso dalla rivista “Leggere” reca con
evidenza impressionante l'impronta volutamente dissonante che sarà
la più tipica del Parise prosatore: Dove le rigide epidermidi di
un volto / costrette dalle loro stesse fibre in decrescenti superfici
/ compongono gli elementi variabili / dell' inerte rappresentazione.
Per questo, forse, la
poesia venne da allora in poi radicalmente espunta dall'orizzonte
creativo dello scrittore: come notava Andrea Zanzotto sullo stesso
numero di “Leggere”, gran parte della sostanza psichica e
stilistica de I movimenti remoti sarebbe transitata quasi
senza soluzioni di continuità in quel territorio di frontiera fra
poema atonale e narrazione per frammenti che Parise cercò
costantemente di dimenticare, ma che con regolarità riemergeva qua e
là anche nei romanzi-più-romanzi, fino a trionfare senza più
resistenze nelle splendide prose dei due Sillabari. Ma ecco
che nel dolore di quei mesi dell'86, nell' aggravarsi della malattia
che lo avrebbe condotto alla morte, il prosatore si ritrova
improvvisamente poeta; e insieme sembra ritrovare (o magari scoprirsi
dentro per la prima volta, o ancora per la prima volta accettare) una
piena disposizione al canto, che gli fa persino accogliere echi
montaliani (Fu il ramarro e non tu / smunta formica / a udire le
sirene) e che comunque consacra a oggetto di letteratura quegli
scenari privati tenuti fino ad allora scontrosamente a distanza.
Queste dieci poesie,
volendo, potrebbero legittimamente esser lette come una sorta di
catalogo che raccoglie predilezioni e nostalgie, riflessioni e
idiosincrasie, ambienti e flash visivi, sgomenti e profezie,
melanconie e incubi, tutti saldamente impiantati sul subitaneo
emergere dell'io, che francamente si misura coi propri ricordi e con
la propria specifica fisionomia, traendone una forma singolare di
consolazione in articulo mortis. Basta dare un' occhiata ai temi per
convincersi che ormai è se stesso, senza più diaframmi né
mediazioni, che l' autore mette in gioco nell' esercizio sia pur
stravagante della sua arte. C'è Capri, ad esempio, che Parise,
viaggiatore instancabile per professione (i suoi libri di reportages
dalle più disparate parti del globo eguagliano in quantità la
produzione narrativa), non esitava a definire il più bel posto del
mondo. Lì, oltretutto, si può godere del nettare di Tiberio /
che iodio incanta / nella gola secca: insomma, un bel sorso di vino
ghiacciato, nell' arsura del sole e del mare... C' è l'
amatissimo cagnolino Petote, del quale ancora con un giro di frase
caro all'amico Montale viene addirittura fornito il pedigree: Non
fu la vera lady Duff / tua madre / né la sua controfigura / Coppelia
/ ma Oca, l' italiana /.../ Non ti fu dato / di sgolarti a volpi /
sotto le quercie / come il tuo bisnonno / Watteau Snuff (e a
proposito di disposizione al canto, come non notare che questi versi
dissimulano ben tre perfetti endecasillabi?). E comunque il nome
Petote, che vale più o meno patatone, tontolone, innesca un vivido
ricordo d'infanzia: quello di un
quattordicenne / rachitico / dai piedi palmati / un aio rassegnato /
che ebbe vita breve, appunto così soprannominato dalla gente
della natia Vicenza. C'è, poi, il firn, una neve primaverile
finemente granulosa e piuttosto rara, che per la sua sciabilità era
il sogno proibito dell'appassionato cultore del fuoripista che Parise
era, e che ora, nell'immobilità coatta, gli contrae immediatamente
il verso in una sorta di spasimo rabbioso: sul più alto ghiaccio
/ goccia non sincera / di lapido sole / chiude il silenzio / il
gracchio corvo / su lunghe distese / di ominetti. E ci sono,
naturalmente, gli orrori per la storia degli uomini, il catastrofismo
sul destino del mondo (Dollaro o rublo / annullano il fixing / nel
cinerario finale. / Vale), il disprezzo per la mediocrità, persino
un Amleto (quel danese vestito tutto di nero) eletto a negativo
angelo custode delle sorti miserande del presente: Questo è ciò che
fu / tuffiamoci ora nell' uranio / e che l' ombra del nero principe
sia con noi.
Ma è facile constatare
come tutto possa essere ricondotto a uno sfogo di umor nero,
all'espressione di una personalissima insoddisfazione che non si cura
di rendere credibili i propri motivi, né tanto meno di far
proseliti. Giunto alla soglia definitiva, sentendosi già abitante di
quel millimetrato ossario che i posteri assegneranno alla sua opera
nelle loro biblioteche (così si esprimeva l'8 febbraio 1986, nel
discorso di ringraziamento per la laurea honoris causa conferitagli
dall'Università di Padova), Parise si concede un'estrema vacanza dai
propri pudori, disocculta infine le emozioni di sempre, confessa le
sue difficili radici.
Non a caso in quello
stesso mese di febbraio fa uscire presso le Edizioni Becco Giallo di
Oderzo un frammento di romanzo intitolato Arsenico, scritto
nel 62 e poi nascosto nei cassetti certo per il lampante
autolesionismo che ne trasuda. Non si amava Goffredo, o forse - come
è ovvio - si amava troppo. E certo mai come in queste poesie è
stato somigliante a quell'affettuoso ritratto che gli ha dedicato
Montale: Jaufré passa le notti incapsulato / in una botte. Alla
primalba s'alza / un fischione e lo sbaglia. Poco dopo / c'è
troppa luce e lui si riaddormenta. / E' l'inutile impresa di chi
tenta / di rinchiudere il tutto in qualche niente / che si rivela
solo perché si sente.
“la Repubblica”, 9
settembre 1989
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