10.6.18

Goffredo Parise. In versi diede addio alla vita (Stefano Giovanardi)


Goffredo Parise detestava la parola poesia. E non amava neanche, per definire la sua produzione, il termine letteratura. Preferiva parlare di arte, secondo quanto testimoniò Gianfranco Folena durante un incontro di studio tenutosi a Treviso due anni fa: arte e basta, quasi che ulteriori distinzioni dovessero risultare fatalmente limitative, se non addirittura fuorvianti.
La sua arte, comunque, fu certamente la prosa: forse il solo Moravia, nella nostra tradizione recente, è un prosatore puro quanto lui, secco e scabro come sempre lui da Il ragazzo morto e le comete fino ai Sillabari riuscì ad essere. Eppure negli ultimi mesi di vita, fra la primavera e l'estate del 1986 (Parise morì il 31 agosto di quello stesso anno), lo scrittore si dedicò come ora apprendiamo da Giosetta Fioroni che ha concesso a “Mercurio” la pubblicazione degli inediti proprio alla scrittura in versi, racchiudendo in dieci poesie o poco più le sue estreme energie creative, come a saldare un conto aperto quasi quarant'anni prima.
Nel 1948, infatti, il diciannovenne Goffredo aveva dato da leggere all' amico editore Neri Pozza la prima parte di una lunga composizione, mista di prosa e versi, intitolata I movimenti remoti. Neri Pozza, evidentemente, nicchiò; e del resto lo stesso Parise, ormai preso dalla stesura di quel Ragazzo morto e le comete che sarebbe divenuto nel 51 il suo romanzo d'esordio, dimenticò ben presto l'esperimento giovanile. Anzi lo smarrì, per essere più precisi. E di esso ci restano ora pochi e brevi frammenti, sopravvissuti autografi fra i brogliacci di un disordinato archivio personale.
Ma quei frammenti, testimoni inopinati di una preistoria destinata alla sepoltura, erano esattamente per la maggior parte poesie. E almeno uno dei tre pubblicati nel marzo scorso dalla rivista “Leggere” reca con evidenza impressionante l'impronta volutamente dissonante che sarà la più tipica del Parise prosatore: Dove le rigide epidermidi di un volto / costrette dalle loro stesse fibre in decrescenti superfici / compongono gli elementi variabili / dell' inerte rappresentazione.
Per questo, forse, la poesia venne da allora in poi radicalmente espunta dall'orizzonte creativo dello scrittore: come notava Andrea Zanzotto sullo stesso numero di “Leggere”, gran parte della sostanza psichica e stilistica de I movimenti remoti sarebbe transitata quasi senza soluzioni di continuità in quel territorio di frontiera fra poema atonale e narrazione per frammenti che Parise cercò costantemente di dimenticare, ma che con regolarità riemergeva qua e là anche nei romanzi-più-romanzi, fino a trionfare senza più resistenze nelle splendide prose dei due Sillabari. Ma ecco che nel dolore di quei mesi dell'86, nell' aggravarsi della malattia che lo avrebbe condotto alla morte, il prosatore si ritrova improvvisamente poeta; e insieme sembra ritrovare (o magari scoprirsi dentro per la prima volta, o ancora per la prima volta accettare) una piena disposizione al canto, che gli fa persino accogliere echi montaliani (Fu il ramarro e non tu / smunta formica / a udire le sirene) e che comunque consacra a oggetto di letteratura quegli scenari privati tenuti fino ad allora scontrosamente a distanza.
Queste dieci poesie, volendo, potrebbero legittimamente esser lette come una sorta di catalogo che raccoglie predilezioni e nostalgie, riflessioni e idiosincrasie, ambienti e flash visivi, sgomenti e profezie, melanconie e incubi, tutti saldamente impiantati sul subitaneo emergere dell'io, che francamente si misura coi propri ricordi e con la propria specifica fisionomia, traendone una forma singolare di consolazione in articulo mortis. Basta dare un' occhiata ai temi per convincersi che ormai è se stesso, senza più diaframmi né mediazioni, che l' autore mette in gioco nell' esercizio sia pur stravagante della sua arte. C'è Capri, ad esempio, che Parise, viaggiatore instancabile per professione (i suoi libri di reportages dalle più disparate parti del globo eguagliano in quantità la produzione narrativa), non esitava a definire il più bel posto del mondo. Lì, oltretutto, si può godere del nettare di Tiberio / che iodio incanta / nella gola secca: insomma, un bel sorso di vino ghiacciato, nell' arsura del sole e del mare... C' è l' amatissimo cagnolino Petote, del quale ancora con un giro di frase caro all'amico Montale viene addirittura fornito il pedigree: Non fu la vera lady Duff / tua madre / né la sua controfigura / Coppelia / ma Oca, l' italiana /.../ Non ti fu dato / di sgolarti a volpi / sotto le quercie / come il tuo bisnonno / Watteau Snuff (e a proposito di disposizione al canto, come non notare che questi versi dissimulano ben tre perfetti endecasillabi?). E comunque il nome Petote, che vale più o meno patatone, tontolone, innesca un vivido ricordo d'infanzia: quello di un quattordicenne / rachitico / dai piedi palmati / un aio rassegnato / che ebbe vita breve, appunto così soprannominato dalla gente della natia Vicenza. C'è, poi, il firn, una neve primaverile finemente granulosa e piuttosto rara, che per la sua sciabilità era il sogno proibito dell'appassionato cultore del fuoripista che Parise era, e che ora, nell'immobilità coatta, gli contrae immediatamente il verso in una sorta di spasimo rabbioso: sul più alto ghiaccio / goccia non sincera / di lapido sole / chiude il silenzio / il gracchio corvo / su lunghe distese / di ominetti. E ci sono, naturalmente, gli orrori per la storia degli uomini, il catastrofismo sul destino del mondo (Dollaro o rublo / annullano il fixing / nel cinerario finale. / Vale), il disprezzo per la mediocrità, persino un Amleto (quel danese vestito tutto di nero) eletto a negativo angelo custode delle sorti miserande del presente: Questo è ciò che fu / tuffiamoci ora nell' uranio / e che l' ombra del nero principe sia con noi.
Ma è facile constatare come tutto possa essere ricondotto a uno sfogo di umor nero, all'espressione di una personalissima insoddisfazione che non si cura di rendere credibili i propri motivi, né tanto meno di far proseliti. Giunto alla soglia definitiva, sentendosi già abitante di quel millimetrato ossario che i posteri assegneranno alla sua opera nelle loro biblioteche (così si esprimeva l'8 febbraio 1986, nel discorso di ringraziamento per la laurea honoris causa conferitagli dall'Università di Padova), Parise si concede un'estrema vacanza dai propri pudori, disocculta infine le emozioni di sempre, confessa le sue difficili radici.
Non a caso in quello stesso mese di febbraio fa uscire presso le Edizioni Becco Giallo di Oderzo un frammento di romanzo intitolato Arsenico, scritto nel 62 e poi nascosto nei cassetti certo per il lampante autolesionismo che ne trasuda. Non si amava Goffredo, o forse - come è ovvio - si amava troppo. E certo mai come in queste poesie è stato somigliante a quell'affettuoso ritratto che gli ha dedicato Montale: Jaufré passa le notti incapsulato / in una botte. Alla primalba s'alza / un fischione e lo sbaglia. Poco dopo / c'è troppa luce e lui si riaddormenta. / E' l'inutile impresa di chi tenta / di rinchiudere il tutto in qualche niente / che si rivela solo perché si sente.

“la Repubblica”, 9 settembre 1989

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