Gerardo Dottori, "Lui" |
Posto qui un vecchio
articolo da "micropolis" che al tempo negli ambienti artistici e culturali
dell'Umbria fece scalpore e secondo me degno di una (ri)lettura.
Sciamanna rompeva con argomenti e motivati giudizi una unanimistica e
provinciale rivalutazione del pittore perugino Dottori, di cui si
tendeva a sottovalutare la fede fascista e a sopravvalutare
l'importanza artistica. (S.L.L.)
Gerardo Dottori, L'isola Polvese |
Si dice che sia il grigio
il colore della nostra epoca, il grigio che annulla tutti i
contrasti, il grigio dove tutti i colori, dal rosso al nero, sfumano
e convivono. È probabile che ciò sia nei comportamenti usuali,
anche involontari, è possibile che ciò riguardi gran parte
dell'Occidente osservato dagli occhi di un osservatore imparziale.
Altro però è dire,
altro è accettare che il grigio sia il colore in cui tutti dobbiamo
riconoscerci, rendere plausibile che tutte le nostre aspettative
debbano sfumare nel grigio del compromesso, dell'indistinto, del pelo
dei gatti notturni, dell'amorfo, dell'esangue, dello stinto.
Supinamente rispetto a
questa regola sembra che stia montando un partito trasversale che
vuole proporre una rivisitazione in senso positivo della figura
complessiva del pittore Gerardo Dottori, attraverso una mostra che
andrebbe ad aggiungersi alle molte che dal 1924 almeno in poi, si
sono susseguite fino agli anni '70, in molti siti del mondo da
Venezia all'America a varie città d'Italia onorando oltremodo la
figura del pittore perugino.
Non credo che Dottori
avrebbe amato dai propri concittadini che l'hanno conosciuto bene, un
sordo osanna acromo, un riconoscimento in cui praticamente, a forza
di sottrazioni, si giunge all'indifferenziato: ma sì, in fin dei
conti anche lui può beneficiare di una benedizione anonima, anche
lui è stato così così, né rosso, né troppo nero (i colori sono
ancora scelti a caso), beatifichiamolo nel limbo del grigio.
Invece, io credo che un
pittore fascista si risentirebbe e richiederebbe una adeguata
riprovazione, o una totale, colorata esaltazione.
Sì perché Dottori è
stato un pittore futurista e fascista.
Un gran pittore di
provincia, il più grande a Perugia dopo Pinturicchio (del quale non
compaiono immagini nel catalogo della Galleria nazionale dell'Umbria)
e non credo di far torto a nessuno così dicendo, nemmeno ai critici
improvvisati, neppure agli storici che lo vorrebbero oggi in auge,
consacrato da una mostra allestita nella sua città, che si
aggiungesse alle molte che via via nel corso degli anni ci sono state
e lo hanno catalogato, come un futurista aeropittore ritardatario e
pertinace, che continuava a ripetere i moduli che il maestro Balla e
Boccioni gli avevano ispirato battezzandoli come “Aerei"
perché vivessero di una dinamicità concettuale in quanto privi di
dinamica propria. Pastelli smaltati da addobbo domestico, senza linfa
né sangue. Un onesto pittore, professionale, di buoni studi, dal
tratto deciso, dalle languide trasparenze che replicavano secoli di
pittura europea, Venezia compresa. Questo al meglio, poi, come sacro
aeropittore col gessetto, pretenzioso e sordo, volatile.
Ma grigio, onestamente,
mai. Gli si può rimproverare una certa incoerenza espressiva,
divergente dalle dichiarazioni d'intenti per cui la sua pittura guida
era e doveva essere il futurismo e null'altro, giustificandosi chissà
come le incursioni tardive nei campi degli esordi. Futurista nelle
intenzioni, ma francamente non so quanto avesse da spartire oltre
queste con quelli veri che, piaccia o no, risultano gli eredi ultimi
di una trafila di scuole che avevano come programma una rivoluzione
che coinvolgeva ogni ambito dell'esistente. Si trattava di un
progetto globale talmente forte come proposta che lo stesso fascismo,
il quale aveva assoluto bisogno di prestiti ideologici, se ne serve,
anzi se ne fa una cospicua stampella. Quanto fosse congrua poi, al di
là delle violenze dichiarate e praticate, una fusione tra gli
idolatri della macchina e del progresso contro il chiaro di luna con
gli autarchici combattenti del grano, massaie rurali e balilla,
nonostante, credo attente, riletture lascia ancora perplessi.
Dottori fascista in
quanto futurista? Jamais de la vie! Fascista tout court però
sì.
Ilario Ciaurro
sommessamente e con un linguaggio obbligatoriamente fascista glielo
fa notare quando lui s'indigna e lo chiama insieme ai suoi accoliti
"impressionista", dileggiandolo perché non è futurista
come lui, perché l'arte del ternano adottivo non risulta funzionale
al regime, all'impero, come, grazie al fatto che ancora le fa segnare
il passo, appare la propria, attardata su modelli che tutti quelli
che in pittura contano, per diverse ragioni, hanno ormai abbandonato.
E questo accade in occasione delle Sindacali Umbre nelle quali è
egemone indiscusso fin dagli inizi Dottori, a cui Ciaurro, che la
storia direbbe non essergli da meno, deve rivolgersi, sempre sulle
colonne di “Acciaio", con il rispetto espresso dal linguaggio
consono: il linguaggio futuristeggiante denso di figure geometriche e
neologismi. Colpe certo non infamanti, ma assunte come tratti
distintivi degli accadimenti che riguardano la pittura umbra della
prima metà di questo secolo.
Lo si vuole riabilitare?
Lasciamolo fascista, conserviamola questa distinzione, non si dica
era fascista però era buono, i sentimenti personali, i comportamenti
individuali sono sempre degni di rispetto e garantiscono indulgenze,
a chiunque appartengano. Ma gli atti ufficiali sono simbolici,
coinvolgono l'idea e richiamano un giudizio che non può godere di
alcuna clemenza e la sua adesione al fascismo non mi risulta nemmeno
rinnegata, se mai ciò potesse valere qualcosa.
Vogliamo pennellare tutto
di grigio così da confondere ogni cosa, ogni idea? È il caso di
dimenticare tutto, soprattutto è il caso di dare un colpo di spugna
alle scelte politiche in virtù di meriti artistici oltretutto così
poco sicuri (mitigando il giudizio in rispettosa attesa del lavoro in
corso di Enrico Crispolti) perché un altro concittadino entri
nell'olimpo di provincia così che tutti ci sentiamo un po' più
semidei di riflesso?
Peggio ancora sarebbe se
questa fosse un'operazione, come si dice oggi, politica.
Sarebbe semplicemente
vergognoso se per avviare un dialogo di interessi tra parti
antagoniste si ricorresse al cavallo di Troia della mostra-monumento
dell'artista che viene individuato, in virtù della sua opera, quale
punto d'incontro per intese altrimenti difficili, per stemperare nel
compromesso, nell'accordo. Nel grigio.
Vorrei aggiungere, per
chi ha avuto pazienza di leggermi fin qui, che se si dovesse passare
dal campanile ad un territorio più vasto, ci sarebbero ben altri
artisti contemporanei da riconsiderare. Non dico Burri, che già s'è
trovato un posto nella storia, ma un'analisi attenta farebbe
convergere l'attenzione su nomi su cui sarebbe molto interessante
riflettere, nomi totalmente al di fuori di ambigue e problematiche
implicazioni politiche.
“micropolis”,
settembre 1997
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