10.6.18

Grigio di provincia. Gerardo Dottori fascista in quanto futurista o fascista tout court? (Enrico Sciamanna)

Gerardo Dottori, "Lui"
Posto qui un vecchio articolo da "micropolis" che al tempo negli ambienti artistici e culturali dell'Umbria fece scalpore e secondo me degno di una (ri)lettura. 
Sciamanna rompeva con argomenti e motivati giudizi una unanimistica e provinciale rivalutazione del pittore perugino Dottori, di cui si tendeva a sottovalutare la fede fascista e a sopravvalutare l'importanza artistica. (S.L.L.)
Gerardo Dottori, L'isola Polvese
Si dice che sia il grigio il colore della nostra epoca, il grigio che annulla tutti i contrasti, il grigio dove tutti i colori, dal rosso al nero, sfumano e convivono. È probabile che ciò sia nei comportamenti usuali, anche involontari, è possibile che ciò riguardi gran parte dell'Occidente osservato dagli occhi di un osservatore imparziale.
Altro però è dire, altro è accettare che il grigio sia il colore in cui tutti dobbiamo riconoscerci, rendere plausibile che tutte le nostre aspettative debbano sfumare nel grigio del compromesso, dell'indistinto, del pelo dei gatti notturni, dell'amorfo, dell'esangue, dello stinto.
Supinamente rispetto a questa regola sembra che stia montando un partito trasversale che vuole proporre una rivisitazione in senso positivo della figura complessiva del pittore Gerardo Dottori, attraverso una mostra che andrebbe ad aggiungersi alle molte che dal 1924 almeno in poi, si sono susseguite fino agli anni '70, in molti siti del mondo da Venezia all'America a varie città d'Italia onorando oltremodo la figura del pittore perugino.
Non credo che Dottori avrebbe amato dai propri concittadini che l'hanno conosciuto bene, un sordo osanna acromo, un riconoscimento in cui praticamente, a forza di sottrazioni, si giunge all'indifferenziato: ma sì, in fin dei conti anche lui può beneficiare di una benedizione anonima, anche lui è stato così così, né rosso, né troppo nero (i colori sono ancora scelti a caso), beatifichiamolo nel limbo del grigio.
Invece, io credo che un pittore fascista si risentirebbe e richiederebbe una adeguata riprovazione, o una totale, colorata esaltazione.
Sì perché Dottori è stato un pittore futurista e fascista.
Un gran pittore di provincia, il più grande a Perugia dopo Pinturicchio (del quale non compaiono immagini nel catalogo della Galleria nazionale dell'Umbria) e non credo di far torto a nessuno così dicendo, nemmeno ai critici improvvisati, neppure agli storici che lo vorrebbero oggi in auge, consacrato da una mostra allestita nella sua città, che si aggiungesse alle molte che via via nel corso degli anni ci sono state e lo hanno catalogato, come un futurista aeropittore ritardatario e pertinace, che continuava a ripetere i moduli che il maestro Balla e Boccioni gli avevano ispirato battezzandoli come “Aerei" perché vivessero di una dinamicità concettuale in quanto privi di dinamica propria. Pastelli smaltati da addobbo domestico, senza linfa né sangue. Un onesto pittore, professionale, di buoni studi, dal tratto deciso, dalle languide trasparenze che replicavano secoli di pittura europea, Venezia compresa. Questo al meglio, poi, come sacro aeropittore col gessetto, pretenzioso e sordo, volatile.
Ma grigio, onestamente, mai. Gli si può rimproverare una certa incoerenza espressiva, divergente dalle dichiarazioni d'intenti per cui la sua pittura guida era e doveva essere il futurismo e null'altro, giustificandosi chissà come le incursioni tardive nei campi degli esordi. Futurista nelle intenzioni, ma francamente non so quanto avesse da spartire oltre queste con quelli veri che, piaccia o no, risultano gli eredi ultimi di una trafila di scuole che avevano come programma una rivoluzione che coinvolgeva ogni ambito dell'esistente. Si trattava di un progetto globale talmente forte come proposta che lo stesso fascismo, il quale aveva assoluto bisogno di prestiti ideologici, se ne serve, anzi se ne fa una cospicua stampella. Quanto fosse congrua poi, al di là delle violenze dichiarate e praticate, una fusione tra gli idolatri della macchina e del progresso contro il chiaro di luna con gli autarchici combattenti del grano, massaie rurali e balilla, nonostante, credo attente, riletture lascia ancora perplessi.
Dottori fascista in quanto futurista? Jamais de la vie! Fascista tout court però sì.
Ilario Ciaurro sommessamente e con un linguaggio obbligatoriamente fascista glielo fa notare quando lui s'indigna e lo chiama insieme ai suoi accoliti "impressionista", dileggiandolo perché non è futurista come lui, perché l'arte del ternano adottivo non risulta funzionale al regime, all'impero, come, grazie al fatto che ancora le fa segnare il passo, appare la propria, attardata su modelli che tutti quelli che in pittura contano, per diverse ragioni, hanno ormai abbandonato. E questo accade in occasione delle Sindacali Umbre nelle quali è egemone indiscusso fin dagli inizi Dottori, a cui Ciaurro, che la storia direbbe non essergli da meno, deve rivolgersi, sempre sulle colonne di “Acciaio", con il rispetto espresso dal linguaggio consono: il linguaggio futuristeggiante denso di figure geometriche e neologismi. Colpe certo non infamanti, ma assunte come tratti distintivi degli accadimenti che riguardano la pittura umbra della prima metà di questo secolo.
Lo si vuole riabilitare? Lasciamolo fascista, conserviamola questa distinzione, non si dica era fascista però era buono, i sentimenti personali, i comportamenti individuali sono sempre degni di rispetto e garantiscono indulgenze, a chiunque appartengano. Ma gli atti ufficiali sono simbolici, coinvolgono l'idea e richiamano un giudizio che non può godere di alcuna clemenza e la sua adesione al fascismo non mi risulta nemmeno rinnegata, se mai ciò potesse valere qualcosa.
Vogliamo pennellare tutto di grigio così da confondere ogni cosa, ogni idea? È il caso di dimenticare tutto, soprattutto è il caso di dare un colpo di spugna alle scelte politiche in virtù di meriti artistici oltretutto così poco sicuri (mitigando il giudizio in rispettosa attesa del lavoro in corso di Enrico Crispolti) perché un altro concittadino entri nell'olimpo di provincia così che tutti ci sentiamo un po' più semidei di riflesso?
Peggio ancora sarebbe se questa fosse un'operazione, come si dice oggi, politica.
Sarebbe semplicemente vergognoso se per avviare un dialogo di interessi tra parti antagoniste si ricorresse al cavallo di Troia della mostra-monumento dell'artista che viene individuato, in virtù della sua opera, quale punto d'incontro per intese altrimenti difficili, per stemperare nel compromesso, nell'accordo. Nel grigio.
Vorrei aggiungere, per chi ha avuto pazienza di leggermi fin qui, che se si dovesse passare dal campanile ad un territorio più vasto, ci sarebbero ben altri artisti contemporanei da riconsiderare. Non dico Burri, che già s'è trovato un posto nella storia, ma un'analisi attenta farebbe convergere l'attenzione su nomi su cui sarebbe molto interessante riflettere, nomi totalmente al di fuori di ambigue e problematiche implicazioni politiche.

“micropolis”, settembre 1997

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