Riprendo dal blog de "Il Ponte", la rivista fiorentina fondata da Piero Calamandrei e oggi diretta da Marcello Rossi un articolo di Luca Michelini. Mi pare precisazione puntuale e argomentata per i "minimizzatori di sinistra", quelli che per parlare di razzismo aspettano, se non un Mein Kampf attualizzato, un nuovo (improbabile) Manifesto della Razza. (S.L.L.)
A proposito del razzismo
e delle politiche razziste esiste, purtroppo, un diffuso malinteso.
Si presume, infatti, che politiche discriminatorie siano il frutto
esclusivo di ideologie e di prassi apertamente e dichiaratamente
razziste. Ci si aspetta che tali politiche e che le ideologie che le
sorreggono abbiano necessariamente bisogno di un qualche Manifesto
della razza e di qualche intellettuale e scienziato disposto a
dimostrare che «le razze esistono». Naturalmente, si deve sapere
che il razzismo è anche questo. Ma la storia, e in modo particolare
la storia italiana, ci insegna che il razzismo e le politiche
discriminatorie hanno anche un’origine diversa.
Ci sono stati autori,
ancor oggi osannati dalla destra in doppio petto, che hanno invitato
pubblicamente a discriminare certi gruppi etnici e contemporaneamente
hanno scritto che il razzismo era una dottrina priva di qualsivoglia
base scientifica. Il razzismo non è affatto per forza di cose una
teoria biologica della politica. Esiste, cioè, anche il razzismo
politico. Esiste fin dall’origine un dato caratteristico delle
ideologie razziste: la loro profonda ambiguità, il porsi tra il dire
e il non dire, tra l’affermazione e la smentita. Tratto
caratteristico di queste ideologie è l’uso deliberato della
menzogna, che è addirittura teorizzata come funzionale a descrivere
ciò che è “verosimile”. C’è sempre un contesto
internazionale che costituisce una camicia di forza per la “patria”,
rettamente intesa. C’è sempre una “cospirazione”
internazionale da debellare.
Il razzismo, dunque, è
usato come deliberata arma di propaganda, ma non per fini puramente
ideologici, quanto per promuovere attive politiche di aggressione: in
particolare lo squadrismo dei primi anni venti. E fin dalle origini
queste prassi discriminatorie hanno invocato “censimenti”: a
cominciare dai cognomi e poi redigendo e pubblicando “elenchi” e
poi avviando complesse procedure di “riconoscimento” e poi
redigendo la geografia economica e istituzionale dell’“occupazione”
che i gruppi avevano fatto e andavano facendo di certi lavori e di
certe cariche, diventando quello che viene definito «uno Stato nello
Stato».
Tipico di queste
ideologie è presentare proprio i gruppi discriminati come
fomentatori di discriminazione, come i primi e i fondamentali
“razzisti”, come gruppi che rifiutano l’integrazione. Il
razzismo politico stigmatizza, poi, le ideologie “umanitarie” e
“cosmopolite”, che naturalmente nascondono ben circoscrivibili
“interessi” o di gruppi o di nazioni. L’“epurazione”
invocata di questi gruppi si è sempre accompagnata alla loro
assimilazione ad altri gruppi che, in un modo o nell’altro,
costituivano «uno Stato nello Stato», dei “traditori”,
naturalmente anch’essi da estirpare. E prima di arrivare alla
codificazione legislativa di politiche razziste e discriminatorie, la
discriminazione ha cercato la via più semplice: farsi propaganda,
titolo di giornale, intervista; poi farsi cemento ideologico di
partito; in seguito farsi provvedimento amministrativo apparentemente
indolore per la cornice legislativa che lo contiene; poi diventare
provvedimento di ordine pubblico, così da criminalizzare il gruppo
da discriminare; infine, quando le coscienze sono state abituate alla
discriminazione, quando le voci discordi sono rese minoritarie,
quando appare politicamente corretto e condiviso tutto quanto sopra
descritto, il razzismo diventa codice, legge, organizzazione.
dal sito de "Il Ponte" - https://www.ilponterivista.com/ - Postato il 23 giugno 2018
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