Non sono certo che la
rilettura che Clara Mazzoleni ha fatto del celebre libro di Marina
Ripa di Meana, subito dopo la morte dell'autrice, troverà molti
consensi tra frequentatrici e frequentatori di questo blog e io
stesso non la trovo convincente in ogni passaggio. Mi pare tuttavia
utile “postarla” e trovarle qualche lettore in più: il libro è
un antidoto contro il bacchettonismo di ritorno cui è approdata
tanta parte del femminismo delle due rive dell'Atlantico e Mazzoleni
lo fa ben notare. (S.L.L.)
Marina Punturieri con il marito Carlo Ripa di Meana |
Nel 2012 la casa editrice
Minerva ripubblica il primo libro di Marina Ripa di Meana con una
nuova breve premessa dell’autrice. «Perché ripubblicare I miei
primi quarant’anni?»,
si chiede lei, e si risponde così: «Di libri ne ho scritti 14,
eppure la gente continua a chiedermi di quella mia prima
autobiografia. È un libro che non tramonta mai, che continua a
destare curiosità e interesse». Pubblicato per la prima volta nel
1984 da Sperling & Kupfer, il best-seller che scandalizzò
l’Italia (e da cui Carlo Vanzina trasse l’omonimo film del 1987)
racconta 40 anni dell’incredibile vita di Marina Punturieri (nata a
Reggio Calabria nel 1941 e morta a Roma il 5 gennaio 2018) e la sua
inarrestabile ascesa: da anonima borghese a confidente, amante e
amica di alcune tra le personalità più importanti dell’Italia dei
suoi anni. Ma la vera carica innovativa del libro, più che quello
che racconta (tanto sesso e tanta droga, descrizioni e aneddoti che
fecero tremare alcuni uomini potenti, ben due matrimoni con
discendenti di famiglie nobili, Lante della Rovere e Ripa di Meana) è
il modo in cui lo racconta. E anche di questo l’autrice è
consapevole. Sempre nella premessa, scrive: «Si può dire che I miei
primi quarant’anni ha inaugurato un modo nuovo di raccontare la
vita brillante e avventurosa di una ragazza come me, bella, ambiziosa
e determinata, che usciva da una tranquilla famiglia borghese per
lanciarsi alla conquista del mondo».
C’è un motivo per cui
le donne e gli uomini che oggi si autoproclamano “femministi”
dovrebbero leggere o rileggere la biografia di Marina Ripa di Meana.
È un libro che può fare da antidoto alle rigidità di una certa
parte del femminismo di oggi. E il motivo, dalla prima all’ultima
pagina è la splendente indipendenza di pensiero della voce narrante.
Impavida e lucidissima osservatrice del materiale che ha a
disposizione, dei meccanismi di potere, degli uomini e delle donne,
del sesso: tutti (lei compresa ovviamente) vengono descritti con le
loro miserie e i loro fascini, dai nobili impomatati ai più
importanti intellettuali italiani, dal maggiordomo a Bettino Craxi,
dagli amanti alle amiche, dai genitori alla figlia Lucrezia.
Soprattutto il sesso, moltissimo e molto vario, viene raccontato nel
libro con un candore, una competenza erotica e soprattutto un
coinvolgimento meravigliosi, che ricordano a noi donne che, sì, c’è
Cat Person, ma c’è anche la possibilità di vivere la sessualità
(anche quando non ha a che fare con l’amore) in modo sfrenato,
gioioso, appagante.
Lo sguardo di Marina Ripa
di Meana sulla vita è una freccia solitaria che corre velocissima e
centra e oltrepassa infiniti bersagli: completamente autonomo,
solitario, ma splalancato sul mondo, avido di novità, si posa su
tutto senza lasciarsi dominare da niente, tantomeno dagli uomini, che
non sono certo visti come nemici o minacce, ma come complici,
creature amatissime, ognuno con i suoi speciali poteri e le sue
ridicole debolezze, tutti preziosissimi alleati e intrattenitori, dai
partner agli amici, dai principi miliardari agli artisti
squattrinati. Il modo di Marina Ripa di Meana di trattare gli uomini
e vivere la propria femminilità ha il potere di far sembrare un po’
sterili tanti piccoli di dibattiti di oggi, certo ottimi per generare
traffico sui social network ma inutili nella vita reale.
Nel mondo post-Weinstein
sembra che alcuni sprechino le loro energie aspettando che un uomo
faccia un passo falso per poterlo accusare di non essere femminista o
di oltraggiare in qualche modo le donne. Termini come mansplaining,
catcalling e altri, vengono spesso usati a sproposito. È
giusto condannare abusi e ingiustizie, bisogna però sapersi
difendere dai rancori preventivi e dalle generalizzazioni. Due
esempi. Marina Ripa di Meana ha passato la vita ad ascoltare gli
uomini “spiegarle” le cose. Uomini di potere, di successo e di
genio, tutti pronti a spiegare (ma non è ogni spiegazione un
racconto, ogni discussione un arricchimento?), e lei pronta ad
ascoltare, senza mai però sentirsi vittima di una lezione del tipo
“ti dico io qual è la cosa giusta e vera”, dominata anzi da
un’implacabile curiosità per i punti di vista di tutti, imparando
e scoprendo in questo modo tante più cose che leggendo quei libri
che non ha mai amato (l’unico che l’ha fatta impazzire, dice, è
stato Le mille e una notte, ma per l’inizio della sua
autobiografia sceglie una bellissima epigrafe dalle Passeggiate
romane di Stendhal).
A proposito di un altro
fenomeno che indigna molte donne, il catcalling (cioè quando
gli uomini, al nostro passaggio per la strada, fanno apprezzamenti):
molte di noi girano per le strade incattivite, già risentite, pronte
a cogliere questi segnali per ostentare il proprio senso di
frustrazione, disgusto, umiliazione. Marina la vedeva in un modo un
po’ diverso: «Sentirmi ammirata mi procurava una sensazione di
grande euforia, di vitalità, di felicità. Spesso mi bastava una
semplice passeggiata. Negli anni Cinquanta, camminare (o meglio
«saper» camminare) era importantissimo per una donna: era un’arte
da imparare e da perfezionare con la dovuta attenzione. Si incontrava
una persona, si proseguiva e ci si portava dietro il suo sguardo
pieno di ammirazione, qualcosa che restava addosso e che
rappresentava un sicuro riconoscimento del proprio fascino. Non mi
importava affatto che il ragazzo che se ne stava imbambolato alla
finestra non mi piacesse: l’importante era essere desiderata.
Uscivo di casa, sentivo l’aria che mi accarezzava il volto, andavo
tra la gente quasi con impeto ed era la vita stessa che mi veniva
incontro».
Questo spirito
scintillante, esuberante, si è scontrato tante volte con
l’infelicità, l’insoddisfazione, la disperazione e anche la
morte. Tante delle persone che Marina Ripa di Meana ha frequentato e
con cui ha stretto legami di amore e amicizia hanno fatto fini
tragiche o misteriose: il libro è costellato di suicidi, omicidi,
morti precoci causate dalla droga, violenza, prostituzione, dolore.
Energie nere che non sono mai riuscite a spegnere la costante,
irrefrenabile ricerca di luce ed energia della protagonista, che per
liberarsi dalla noia che la attanaglia per tutta la sua esistenza
insegue quello che ama, ovvero la bellezza in tutte le sue forme,
ridendo in faccia a chi l’ha considerata frivola, stupida, troia,
arrampicatrice, completamente pazza. Ha avuto il coraggio di seguire
l’istinto, di amare e di fregarsene dell’amore, di cambiare idea,
ma anche di avere pazienza, di calcolare, sfruttare il potere
economico (e non solo) degli uomini che la circondavano per investire
sui suoi sogni, come aprire il suo atelier di moda in piazza di
Spagna a Roma.
Di lei si sa molto,
perché è sempre stata capace di far parlare di sé, ma I miei primi
quarant’anni è un libro da rileggere non solo per addentrarsi
nelle pazzesche vicende della vita di Marina Ripa di Meana. Certo,
non sono pochi i libri femministi che oggi abbiamo a disposizione
(questo, ad esempio, è da leggere) e ci sono ancora tanti nomi del
passato da riprendere e riscoprire, ma vale la pena ritagliare uno
spazio per I miei primi quarant’anni, che ha qualcosa che diventa
sempre più difficile trovare, oggi: l’energia esplosiva, l’immensa
gioia dell’essere donna, ma soprattutto l’amore per gli uomini.
La totale assenza di rancore, risentimento, frustrazione nei
confronti di un’idea generalizzata e astratta del gruppo composto
dagli esseri umani di sesso maschile. Lo sforzo costante di non
giudicare moralmente nessuno, neanche se stessa.
Dal sito Studio -
Attualità Cultura Stili di Vita,
pubblicato l'8 gennaio 2018
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