4.6.18

La polemica su Pasolini. Anticapitalista, dunque barbaro (Massimo Onofri)

da "Il Borghese", 22 dicembre 1960

Chi abbia letto l'articolo di Filippo La Porta uscito su “l'Unità” di sabato 17 maggio (L'anticapitalismo alla Pasolini) non conosce necessariamente l'antefatto: si tratta della risposta ad una recensione comparsa sull'ultimo numero di “Nuovi Argomenti” e appunto relativa al suo libro Pasolini - Uno gnostico innamorato della realtà (Le Lettere). Il contenzioso sta nel fatto che La Porta:
a) ridimensiona seccamente il valore e la portata della poesia di Pasolini a vantaggio della sua produzione saggistica, specie l'ultima degli Scritti corsari e Descrizioni di descrizioni;
b) tende a smarcare Pasolini dalla cultura e dalle vicende del Partito Comunista Italiano (dalla stessa originale assimilazione di Gramsci, sottovalutata) per collocarlo o piuttosto sovrapporlo ad un'area (la si chiami pure laica, azionista o terzaforzista) che gli era invece estranea, e persino sospetta. Questo obiettava a la Porta la recensione del sottoscritto, ad esempio ricordando come il disincanto di un Silone o Chiaromonte fossero impensabili per un autore invece dominato da «passione e ideologia», cioè da un rifiuto immutabile per lo stato di cose presenti, sia si traducesse in ragionamento e declamazione (saggistica, giornalismo) sia si convogliasse in un più oscuro nettare conoscitivo (poesia, e anche cinema di poesia).
Ora, La Porta costruisce la sua replica isolando una frase, anzi una mezza clausola («a Pasolini il capitalismo faceva schifo»), ma avrebbe forse dovuto completare la citazione: «Chi ha visto Salò deve sapere, con cognizione di causa, che il mercato è l'esatto equivalente della merda e del sangue». Non è così? Quale altro contesto avrebbero i fondali cupissimi di Petrolio e della Divina Mimesis? Quando Pasolini parlava di universo orrendo e di dopostoria, a cos'altro si riferiva se non al neocapitalismo e alla cosiddetta società affluente? La recensione si limitava ad affermare simili ovvietà.
Tuttavia La Porta ne eccepisce che il sottoscritto è affetto da trentennale anacronismo o meglio da coma ideologico, il quale lo rende simile al corvo petulante di Uccellacci e uccellini, «che per Pasolini rappresentava il marxismo ingiallito e dogmatico degli anni 50». (Troppa grazia. Ma che film ha visto La Porta? Negli appunti di regia si dice di un corvo marxista, «ma non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero». Quasi un corvo socratico: troppa grazia davvero).
L'impressione, a questo punto, è che non si stia più discutendo di Pasolini ma di un tabù. In altri termini, se sia lecito o meno pronunciare frontalmente l'espressione «anticapitalismo», e se il farlo comporti ipso facto rozzezza culturale e barbarie ideologica. Le raffinate perifrasi, le oculate citazioni e i distinguo con cui se lo vieta, dicono che in questi ultimi trent'anni La Porta ha letto i libri che si dovevano leggere e visto le cose che si dovevano vedere: nell'attuale galateo liberale (o liberal, che ne è appena l'eufemismo) anticapitalista vale infatti antiamericano, antioccidentale, e le espressioni più paralizzanti, da anatema laico e progressista .
Dio liberi. Trent'anni di assennatezza e disincanto andrebbero perduti, e con essi l'acquisto come di un sesto senso, che infallibilmente associa un liberal a un liberale: quello di riconoscere ovunque un comunista. Comunista anni 50, beninteso.

“l'Unità”, 25 maggio 2003

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