«Grazie a questi studi
un giorno potremo liberarci per sempre delle nostre paure con una
singola dose di farmaco», ha scritto recentemente sul “New York
Times” Richard Friedman, direttore della clinica psicofarmacologica
della Weill Cornell Medicine negli Stati Uniti. Friedman fa
riferimento ai lavori dell’olandese Merel Kindt, docente di
psicologia clinica sperimentale all’Università di Amsterdam, la
quale, come testimoniato in un ampio resoconto pubblicato agli inizi
di maggio sulla rivista “The New Republic”, sta fornendo negli
ultimi anni le prove scientifiche più rilevanti a sostegno di
trattamenti farmacologici in grado di fronteggiare definitivamente
traumi e brutti ricordi.
Mai più paura dei ragni
per chi soffre di aracnofobia. Mai più paura dell’altezza per chi
soffre di acrofobia. E così via. Fino a rendere innocui i ricordi
dolorosi alla base delle sindromi post-traumatiche da stress e dei
disturbi d’ansia. E tutto grazie alla somministrazione del
propranololo, medicinale normalmente usato per trattare l’angina
pectoris e l’ipertensione arteriosa. I risultati sui volontari
umani hanno destato clamore per la loro apparente efficacia.
Alcuni condividono
l’entusiasmo di Friedman e sostengono che potremmo essere
finalmente vicini alla “pillola dell’oblio”, riattualizzata
nell’immaginario collettivo da film di successo come Eternal
sunshine of the spotless mind (in italiano Se mi lasci ti
cancello). Nella pellicola interpretata da Kate Winslet e Jim
Carrey agiva in realtà una complicata macchina messa a punto dalla
Lacuna Inc. Anche se non si trattava di una pastiglia, l’obiettivo
era lo stesso: cancellare ricordi specifici dalla mente di una
persona, in particolare quelli collegati alla storia d’amore dei
due protagonisti.
Molti altri scienziati
invitano però alla cautela, non solo perché i trattamenti
sperimentati da Kindt e altri sono ancora lontani dall’entrare
nella pratica clinica ordinaria, ma anche per gli interrogativi etici
da essi sollevati.
Sta di fatto che, come
spiega a pagina99 Andrea Lavazza, neuroeticista del Centro
universitario internazionale di Arezzo e autore con Silvia Inglese di
Manipolare la memoria. Scienza ed etica della rimozione dei
ricordi (Mondadori Università 2013), «al di là degli annunci a
volte sensazionalistici, una frontiera è stata aperta e si tratta di
una frontiera importante». «Tentativi di trattamento dei disturbi
post-traumatici da stress (anche se allora non si chiamavano così)»,
osserva Lavazza, «furono condotti dopo il primo conflitto mondiale:
già allora era molto chiaro quanto i soldati potessero rimanere
sconvolti dall’esperienza della guerra. All’epoca furono
sviluppati protocolli basati su terapie psicologiche. L’idea di
manipolazione chimica della memoria è molto più recente e si basa
sull’ipotesi che è possibile rendere i ricordi dolorosi meno
disturbanti o addirittura di rimuoverli».
Al filone di ricerca che
privilegia la possibilità di diminuire l’intensità emotiva di un
ricordo senza cancellarlo appartengono gli studi di Merel Kindt. La
psicologa olandese e i suoi colleghi hanno usato il propranololo per
alterare i cosiddetti processi di riconsolidamento di esperienze ad
alta salienza emotiva, in una fase in cui i ricordi a esse associati
sono particolarmente labili. Contrariamente a quanto si è creduto
per molti anni, la memoria a lungo termine potrebbe infatti non
essere immutabile nel tempo. «Oggi abbiamo prove», continua
Lavazza, «che ogni qualvolta una traccia mnestica viene riattivata e
portata alla consapevolezza, essa va incontro a un periodo di
instabilità momentanea, durante la quale può essere rielaborata o
modificata intervenendo opportunamente con molecole che
interferiscono con i complessi processi neurobiologici implicati».
Lavazza è tra coloro che
mettono in guardia dai facili entusiasmi. «Per prima cosa bisogna
ricordare che le ricerche di Kindt sono fatte in laboratorio su pochi
volontari e per il momento non sono previste applicazione mediche.
Inoltre, non c’è accordo nella comunità scientifica sulla
capacità da parte di molecole come il propranololo di attenuare
davvero la portata emozionale dei brutti ricordi».
Tra le tecniche più
attuali e promettenti finalizzate invece a rimuovere definitivamente
eventi spiacevoli del passato e non a renderli semplicemente più
innocui, si possono segnalare l’uso di gas anestetici o di farmaci
che, bloccando alcuni gruppi di proteine, potrebbero indebolire le
connessioni cerebrali che si instaurano in seguito a un trauma. Un
esempio significativo di quest’approccio è descritto in un
articolo pubblicato su “Science” nel 2010 frutto del lavoro di un
gruppo di neuroscienziati guidati da Richard Huganir, codirettore del
Brain Science Institute alla Johns Hopkins University.
La frontiera nei
tentativi di cancellare o modificare la struttura dei ricordi
traumatici è rappresentata dall’optogenetica, un metodo
d’avanguardia in grado di attivare e disattivare specifici neuroni
modificati geneticamente usando solo un impulso di luce. Tra le tante
sue applicazioni, l’optogenetica consente di identificare gli
specifici circuiti neurali coinvolti nei meccanismi alla base della
paura cronica.
Anche gli stili di vita
potrebbero infine avere un ruolo sulle modalità con cui processiamo
i ricordi. Alcuni gruppi di ricerca stanno cercando di comprendere se
intervenire su di essi possa produrre benefici terapeutici, come
evidenziato in uno studio pubblicato sulla rivista “Cognitive
Behaviour Therapy” nel 2014 in cui si mostrava che l’esercizio
fisico riduceva i sintomi del disturbo post-traumatico da stress. Un
altro campo d’intervento è legato al sonno, dato il suo ruolo
fondamentale nell’apprendimento e nel consolidamento della memoria.
L’efficacia di alcune tecniche psicoterapeutiche potrebbe ad
esempio dipendere da quanto presto i pazienti si addormentano dopo il
trattamento. La rimozione di paure condizionate da traumi passati
avverrebbe poi più efficacemente al mattino rispetto al pomeriggio,
suggerendo che potrebbero esserci dei momenti ottimali nel corso
della giornata per sottoporre le persone a specifiche terapie per la
rielaborazione di esperienze dolorose. Questi esempi rispecchiano fra
l’altro una crescente collaborazione tra neuroscienze e psicologia
sempre più auspicata da diversi addetti ai lavori.
Rimane da chiedersi se
tutti questi sforzi siano accettabili sul piano etico. Secondo i
critici, si corre il rischio di snaturare il concetto stesso di
identità umana, basata essenzialmente sui ricordi, belli o brutti
che siano. «Credo che nessuno scienziato abbia come suo obiettivo la
cancellazione delle memorie», precisa Lavazza. «Lo scopo primario è
comprendere meglio il funzionamento del cervello e cercare di
alleviare il dolore di persone che soffrono per traumi legati a
brutti ricordi. Le manipolazioni chimiche ci danno una possibilità
insperata di dimenticare specifici momenti della nostra vita, pur con
forti limiti, anche teorici, legati al fatto che i nostri ricordi più
importanti sono fortemente intrecciati tra loro. Fino a poco tempo fa
eravamo rassegnati al fatto che fosse impossibile manipolare la
memoria, che di ricordare in un certo senso ci “capitasse”. Oggi
cominciamo a capire che può non essere così».
“Pagina 99”, 25
giugno 2016
Nessun commento:
Posta un commento