Una poesia visiva di Nanni Balestrini |
Nel 2002 alla Galleria
Mazzoli di Modena Nanni Balestrini espose in una mostra dal titolo
Paesaggi verbali i collages
di parole su cui puntigliosamente lavorava da più lustri. Il
catalogo della mostra conteneva l'intervento di Umberto Eco che fu
pubblicato dalla “Repubblica” come anticipazione e che qui
riprendo. (S.L.L.)
Nanni Balestrini con Giuseppe Ungaretti |
C'è un'affermazione di
Pascal circa i suoi Pensieri che recita: «Che non si dica che
non ho detto nulla di nuovo: è nuova la disposizione delle materie».
Mi veniva in mente vedendo che Balestrini ha scelto come epigrafe di
questi suoi nuovi lavori una frase di Jakobson: «Mallarmé diceva
anche che serviva al borghese le stesse parole che egli legge tutti i
giorni nel suo giornale, ma che le serviva in una combinazione
sconcertante».
Ora, l'affermazione di
Mallarmé potrebbe essere presa nel suo senso più letterale: il
poeta usa le stesse parole che si trovano nel dizionario usato da
tutti, salvo che le combina in modo inatteso. Quasi ovvio. Ma
nell'affermazione di Pascal c'è qualcosa di più: egli non parla di
nuova disposizione delle parole ma di nuova disposizione di
argomenti. E qui la cosa si fa diversa, perché un conto è combinare
in modo nuovo le parole che la lingua ci mette a disposizione, per
farne dei testi, e un conto è riordinare, riassettare, scomporre e
ricombinare testi preesistenti. Si noti che si sta parlando di
ricombinazione fisica, che prevede un taglio, una mutilazione, una
dissezione anatomica precedente.
Questo non ha nulla a che
fare con le tendenze decostruzionistiche per cui di un testo, così
come si presenta, si possono dare infinite interpretazioni, anche
quelle che il suo autore non prevedeva. Qui non si tratta di
interpretazione (che riguarda i significati) bensì di operazione
chirurgica sui significanti - e dunque, per ricorrere a una
distinzione che ho fatto altrove, non di interpretazione bensì di
uso, anzi, nel caso di Balestrini, di riuso, proprio nel senso di
riciclo. Potremmo dire che la tecnica non è inconsueta nelle arti
visive, perché altro non è il collage. Con i testi verbali ci sono
meno esempi, a parte Bourroughs e pochi altri.
Balestrini si presenta
come lo scrittore più pigro mai esistito, perché si potrebbe dire
(esagerando un poco) che di suo non ha mai scritto una sola parola e
ha soltanto ricomposto brandelli di testi altrui. Però gli accade
quello che accade a molti infingardi che non hanno voglia di
lavorare, e per tirare a campare, tra una truffa, la corsa per
arrivare a coprire in extremis un assegno a vuoto, il muoversi di qui
e di là per trovare un prestito, scroccare una cena o vendere la
fontana di Trevi a un turista giapponese, impiegano ventiquattr'ore
al giorno, sono sempre con il fiatone, mai non riposano e in fin dei
conti faticano molto di più e più intensamente di un bancario che
timbri il cartellino.
La furia collagistica di
Balestrini, che dura dalla fine degli anni Cinquanta, ha prodotto un
corpus di grande coerenza e dalla cifra riconoscibilissima, segno che
in questa riappropriazione non indebita dei testi altrui egli ci ha
messo qualcosa di suo, che è poi lo stile - il che per un poeta è
tutto, ed è fatto di molto sudore creativo. Un tratto dello stile di
Balestrini è che si riconosce sempre quando egli sta componendo
qualcosa avendo scomposto qualcosa d'altro, ma rimane in ogni caso il
sospetto che quest'opera di riciclo non abbia del tutto messo a
tacere i testi originali. Voglio dire che si potrebbe ricostruire la
cattedrale di Chartres usando solo lattine di Coca Cola, e se poi si
ricopre il tutto con una mano d'intonaco la Coca Cola scompare e
rimane una sorta di costruzione dallo strano bugnato. Ma se le
lattine rimangono a vista è lecito domandarsi se non vi siano dei
rapporti tra la Coca Cola e il Sacro, e comunque se l'autore non
avesse voluto suggerirli.
Se così fosse - se
questo sospetto appena potesse nascere - allora l'operazione di
collage non si sarebbe limitata all'uso, alla scomposizione del
supporto materiale di un discorso che, nell'operazione di riciclo,
scompare, ma conserverebbe alcune delle caratteristiche
dell'interpretazione (del testo distrutto).
Faccio un solo esempio, e
lo traggo dalle Istruzioni per l'uso pratico della signorina
Richmond: Nettatela squamatela infilatele nel ventre le erbe
odorose fissatela allo spiedo con un sottile filo metallico o con uno
spago umido grigliatela alla carbonella accesa cospargetela con
rosmarino e alloro lasciatela riposare per un' ra così che tutti gli
aromi la penetrino poi scuoiatela e pulitela tagliatela in grossi
pezzi infilzatela ben unta d' olio sullo spiedo e praticatele qualche
taglio sulla pelle perché non abbia a screpolarsi fatela cuocere a
fuoco moderato spruzzandola di sale. Il gioco, che continua per
molti altri versi, è scoperto: si tratta di un riciclo di istruzioni
di cucina. Ma è più che evidente che queste istruzioni, applicate
alla signorina Richmond, si colorano (e a tinte accese) di marchese
di Sade.
Perfetto, si direbbe: il
testo, neppure troppo smembrato, ma in ogni caso prelevato dal suo
contesto originario, ha perduto il suo senso per acquistarne un
altro. Ma ne siamo proprio sicuri? Non inizieremo, da questo punto in
avanti, a leggere ricette di cucina vedendovi in trasparenza l'ombra
del Divin Marchese, comprendendo quanto vi sia di perverso in ogni
pratica carnivora che trasformi il Crudo in Cotto? Questo sempre
preoccupa con Balestrini: il sospetto che il suo massacro di
significanti riciclati non comporti anche una rilettura del
significato di ciò che è stato riciclato.
Balestrini ha proceduto,
nella sua attività di riciclatore, dal grande al piccolo e dal
piccolo all'infinitesimale. Dapprima prelevava testi interi, poi li
sminuzzava, poi ha fatto collages di sole parole, e infine di
brandelli di parole e di lettere alfabetiche. È disceso
dall'universo dei testi a quello della tipografia. E lo si vede
benissimo in queste ultime prove, tanto più affini alle arti visive
che non alla poesia, talché si sarebbe tentati di non leggere bensì
soltanto guardare questi labirinti e rizomi tipografici, questi
obelischi senza messaggio iniziatico.
Si potrebbero considerare
oggetti, oggetti visivi fatti con brandelli che furono testi verbali,
non testi verbali fatti con altri testi verbali. Eppure, anche se con
fatica, se si scorrono con l'occhio queste composizioni, si
incominciano a intravedere delle tracce monotematiche, come se in
qualche modo ciascuna composizione fosse a soggetto. Affiorano parole
chiave, ripetizioni, si annusano i contesti di origine, ci richiede
perché l'autore abbia scelto quei ritagli e non altri. Non sono
sicuro che Balestrini voglia che le sue composizioni si leggano così,
se desideri che l'utente di questi suoi oggetti tipografici vi cerchi
disperatamente messaggi in cifra, allusioni, rinvii a campi semantici
ben definiti, composizione per composizione. Tuttavia, se pure non
volesse, non potrebbe impedirci di farlo. E se poi lo voleva, proprio
l'aver l' aria di non volerlo (o almeno di non pretenderlo) ci
spingerebbe a farlo. Allora sono geroglifici? Balestrini aspetta
(sollecita) il suo Champollion? Inutile chiederglielo perché, per
tutta risposta, ci mostrerebbe sorridendo un'altra stele.
"la Repubblica", 21 giugno 2002
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