1.6.18

Nanni Balestrini. Quelle parole ridotte a brandelli (Umberto Eco)

Una poesia visiva di Nanni Balestrini

Nel 2002 alla Galleria Mazzoli di Modena Nanni Balestrini espose in una mostra dal titolo Paesaggi verbali i collages di parole su cui puntigliosamente lavorava da più lustri. Il catalogo della mostra conteneva l'intervento di Umberto Eco che fu pubblicato dalla “Repubblica” come anticipazione e che qui riprendo. (S.L.L.)
Nanni Balestrini con Giuseppe Ungaretti
C'è un'affermazione di Pascal circa i suoi Pensieri che recita: «Che non si dica che non ho detto nulla di nuovo: è nuova la disposizione delle materie». Mi veniva in mente vedendo che Balestrini ha scelto come epigrafe di questi suoi nuovi lavori una frase di Jakobson: «Mallarmé diceva anche che serviva al borghese le stesse parole che egli legge tutti i giorni nel suo giornale, ma che le serviva in una combinazione sconcertante».
Ora, l'affermazione di Mallarmé potrebbe essere presa nel suo senso più letterale: il poeta usa le stesse parole che si trovano nel dizionario usato da tutti, salvo che le combina in modo inatteso. Quasi ovvio. Ma nell'affermazione di Pascal c'è qualcosa di più: egli non parla di nuova disposizione delle parole ma di nuova disposizione di argomenti. E qui la cosa si fa diversa, perché un conto è combinare in modo nuovo le parole che la lingua ci mette a disposizione, per farne dei testi, e un conto è riordinare, riassettare, scomporre e ricombinare testi preesistenti. Si noti che si sta parlando di ricombinazione fisica, che prevede un taglio, una mutilazione, una dissezione anatomica precedente.
Questo non ha nulla a che fare con le tendenze decostruzionistiche per cui di un testo, così come si presenta, si possono dare infinite interpretazioni, anche quelle che il suo autore non prevedeva. Qui non si tratta di interpretazione (che riguarda i significati) bensì di operazione chirurgica sui significanti - e dunque, per ricorrere a una distinzione che ho fatto altrove, non di interpretazione bensì di uso, anzi, nel caso di Balestrini, di riuso, proprio nel senso di riciclo. Potremmo dire che la tecnica non è inconsueta nelle arti visive, perché altro non è il collage. Con i testi verbali ci sono meno esempi, a parte Bourroughs e pochi altri.
Balestrini si presenta come lo scrittore più pigro mai esistito, perché si potrebbe dire (esagerando un poco) che di suo non ha mai scritto una sola parola e ha soltanto ricomposto brandelli di testi altrui. Però gli accade quello che accade a molti infingardi che non hanno voglia di lavorare, e per tirare a campare, tra una truffa, la corsa per arrivare a coprire in extremis un assegno a vuoto, il muoversi di qui e di là per trovare un prestito, scroccare una cena o vendere la fontana di Trevi a un turista giapponese, impiegano ventiquattr'ore al giorno, sono sempre con il fiatone, mai non riposano e in fin dei conti faticano molto di più e più intensamente di un bancario che timbri il cartellino.
La furia collagistica di Balestrini, che dura dalla fine degli anni Cinquanta, ha prodotto un corpus di grande coerenza e dalla cifra riconoscibilissima, segno che in questa riappropriazione non indebita dei testi altrui egli ci ha messo qualcosa di suo, che è poi lo stile - il che per un poeta è tutto, ed è fatto di molto sudore creativo. Un tratto dello stile di Balestrini è che si riconosce sempre quando egli sta componendo qualcosa avendo scomposto qualcosa d'altro, ma rimane in ogni caso il sospetto che quest'opera di riciclo non abbia del tutto messo a tacere i testi originali. Voglio dire che si potrebbe ricostruire la cattedrale di Chartres usando solo lattine di Coca Cola, e se poi si ricopre il tutto con una mano d'intonaco la Coca Cola scompare e rimane una sorta di costruzione dallo strano bugnato. Ma se le lattine rimangono a vista è lecito domandarsi se non vi siano dei rapporti tra la Coca Cola e il Sacro, e comunque se l'autore non avesse voluto suggerirli.
Se così fosse - se questo sospetto appena potesse nascere - allora l'operazione di collage non si sarebbe limitata all'uso, alla scomposizione del supporto materiale di un discorso che, nell'operazione di riciclo, scompare, ma conserverebbe alcune delle caratteristiche dell'interpretazione (del testo distrutto).
Faccio un solo esempio, e lo traggo dalle Istruzioni per l'uso pratico della signorina Richmond: Nettatela squamatela infilatele nel ventre le erbe odorose fissatela allo spiedo con un sottile filo metallico o con uno spago umido grigliatela alla carbonella accesa cospargetela con rosmarino e alloro lasciatela riposare per un' ra così che tutti gli aromi la penetrino poi scuoiatela e pulitela tagliatela in grossi pezzi infilzatela ben unta d' olio sullo spiedo e praticatele qualche taglio sulla pelle perché non abbia a screpolarsi fatela cuocere a fuoco moderato spruzzandola di sale. Il gioco, che continua per molti altri versi, è scoperto: si tratta di un riciclo di istruzioni di cucina. Ma è più che evidente che queste istruzioni, applicate alla signorina Richmond, si colorano (e a tinte accese) di marchese di Sade.
Perfetto, si direbbe: il testo, neppure troppo smembrato, ma in ogni caso prelevato dal suo contesto originario, ha perduto il suo senso per acquistarne un altro. Ma ne siamo proprio sicuri? Non inizieremo, da questo punto in avanti, a leggere ricette di cucina vedendovi in trasparenza l'ombra del Divin Marchese, comprendendo quanto vi sia di perverso in ogni pratica carnivora che trasformi il Crudo in Cotto? Questo sempre preoccupa con Balestrini: il sospetto che il suo massacro di significanti riciclati non comporti anche una rilettura del significato di ciò che è stato riciclato.
Balestrini ha proceduto, nella sua attività di riciclatore, dal grande al piccolo e dal piccolo all'infinitesimale. Dapprima prelevava testi interi, poi li sminuzzava, poi ha fatto collages di sole parole, e infine di brandelli di parole e di lettere alfabetiche. È disceso dall'universo dei testi a quello della tipografia. E lo si vede benissimo in queste ultime prove, tanto più affini alle arti visive che non alla poesia, talché si sarebbe tentati di non leggere bensì soltanto guardare questi labirinti e rizomi tipografici, questi obelischi senza messaggio iniziatico.
Si potrebbero considerare oggetti, oggetti visivi fatti con brandelli che furono testi verbali, non testi verbali fatti con altri testi verbali. Eppure, anche se con fatica, se si scorrono con l'occhio queste composizioni, si incominciano a intravedere delle tracce monotematiche, come se in qualche modo ciascuna composizione fosse a soggetto. Affiorano parole chiave, ripetizioni, si annusano i contesti di origine, ci richiede perché l'autore abbia scelto quei ritagli e non altri. Non sono sicuro che Balestrini voglia che le sue composizioni si leggano così, se desideri che l'utente di questi suoi oggetti tipografici vi cerchi disperatamente messaggi in cifra, allusioni, rinvii a campi semantici ben definiti, composizione per composizione. Tuttavia, se pure non volesse, non potrebbe impedirci di farlo. E se poi lo voleva, proprio l'aver l' aria di non volerlo (o almeno di non pretenderlo) ci spingerebbe a farlo. Allora sono geroglifici? Balestrini aspetta (sollecita) il suo Champollion? Inutile chiederglielo perché, per tutta risposta, ci mostrerebbe sorridendo un'altra stele.

"la Repubblica", 21 giugno 2002

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