Da sinistra: Luigi Pirandello e Marta Abba |
Gli attori si lasciano
dietro un nome sterile e una ghirlanda di fiori secchi. Lo diceva
Oscar Wilde, ma se fosse vero, non saremmo qui a sussultare, leggendo
le lettere che l'attrice Marta Abba scrisse a Luigi Pirandello tra il
1926 e il 1936, Caro Maestro..., edite da Mursia (pp. 406).
Altro che fiori secchi: perfidie, maldicenze, invidie, odii profondi,
meschinità. Un decennio di corrispondenza fittissima, nella quale
entrano, come spinose ossessioni, la smania del successo, il supposto
boicottaggio dei giornali e dei critici, il rapporto non facile col
Maestro, che, ombroso e sospettoso, non perdeva occasione per
rimproverare all'attrice colpe vere o presunte. Nel 1926 Marta Abba
aveva 26 anni. Era bella, elegante, svelta nella figura.
Sebbene avesse colto il
primo, vero successo della sua carriera soltanto due anni prima,
recitando con Virgilio Talli nel Gabbiano di Cecov, era già
capocomica. Pirandello aveva 59 anni. Godeva di fama internazionale e
viveva una situazione familiare drammatica. Tra lui e la Abba era
nato un legame fortissimo, certamente amoroso, ma di sicuro non
erotico. Il Maestro scriveva per lei alcune fra le sue più celebri
commedie (Trovarsi, Come tu mi vuoi) e insieme la consigliava, ne
seguiva il percorso artistico, le suggeriva il repertorio, qualche
volta (apprendiamo da queste lettere) traduceva per lei o aggiustava
versioni zoppicanti. Quando erano lontani, le scriveva lettere
"lunghe come romanzi", alle quali Marta rispondeva
dolendosi talvolta della propria sintassi approssimativa. Ma non è
la sintassi l'aspetto più preoccupante dell'epistolario. Non lo sono
neppure le disinvolture ortografiche ("wechen-den" al posto
di "week-end") o i clamorosi casi d'ignoranza ("quella
commedia di Giorgio ÒNeil Stra no intermezzo", "Il nodo
scorsoio di Noel Coward, inglese mi pare o americano", "Claudel
è vivo o morto?"). Ciò che davvero sorprende, in queste
lettere, è la carica maligna e cattiva con cui la Abba attacca tutti
i propri nemici.
Rivela un odio
profondissimo nei confronti dell'attrice Tatiana Pavlova ("è
tanto lo schifo che mi sale alla gola a vedere quella lurida megera,
incoronata di gloria a quel modo"); dà stoccate alla Borboni,
che "non è piaciuta né come attrice (e questo si poteva
capire) né come donna"; mostra di disprezzare gli attori amici
della Pavlova: Picasso, la Franchetti, Olivieri, che definisce "la
risma e la feccia del teatro". Il secondo polo dell'astio
profondo di cui si nutre la Abba è occupato dai giornali. Li
vorrebbe attenti e benevoli. Non soltanto per sé, ma anche per il
suo Maestro. Quando Pirandello è a Berlino per il contrastato
debutto di Questa sera si recita a soggetto, il Giornale di Brescia
pubblica una cronaca della serata dai toni drammatici. La Abba
annota: "Voglio sapere chi è quell'animale (scusi il termine)
di questo corrispondente da Berlino, canaglia anzi che no". Ma
questo è nulla in confronto a ciò che l'attrice scrive di Silvio
D'Amico ("questo prete") e del critico teatrale de La
Stampa, Francesco Bernardelli, che lei addirittura vorrebbe far
cacciare. Scrive il 28 dicembre 1930: "... ricordando poi che
questo Signor Bernardelli già aveva fatto la sua opera deleteria con
il Lazzaro dell'anno scorso, ho chiamato gli amici vicini a lui per
consigliarmi che dovevo fare.
E gli amici erano come
già le ho detto Ridenti e Mortari che non avevo visto. Mortari corse
subito e si trovò d'accordo, così Ridenti, perché io parlassi con
il direttore de la Stampa, Curzio Malaparte. Lo potei vedere soltanto
ieri dopo le prove. Si mostrò molto cortese e gentile, si ricordò
di me a Ferrara con lei e il discorso poi lo feci cadere sul Signor
Bernardelli. Mi disse che per questo signore è una lamentela
generale e che lui non lo può mandar via perché è un mutilato di
guerra con moglie e figli e con una ferita alla gamba, mai sanata che
lo fa soffrire molto". È andata davvero così? Fino a che punto
possiamo credere che Malaparte tenesse l'autorevolissimo Bernardelli
per puro spirito umanitario?
È possibile che Marta
Abba peccasse di vittimismo? Forse l'ipotesi è legittima,
convalidata dai continui lamenti sulla difficoltà (per lei) di
ottenere tournees all'estero e contratti vantaggiosi in patria. Ma è
anche donna meticolosa, che annota scrupolosamente incassi e
guadagni; attrice ambiziosa, che sogna il successo in modo infantile,
ma lesina la paga agli scritturati; amica affettuosa, preoccupata per
la salute del Maestro e pronta a raccomandargli prudenza, a
consigliarlo su come curarsi. E Pirandello? Non sappiamo che cosa le
dicesse in quelle lettere "lunghe come romanzi". Certo,
oltre a rimproverarla e a consigliarla, doveva parlarle d'amore;
forse con un'insistenza e con una forza che dovevano stordire Marta,
la spossavano, la inducevano a lapsus rivelatori. Per esempio là
dove scrive: "Ma Pirandello, checché se ne dica, è egoista, e
quel che è peggio non se ne accorge e dà prova continuamente di
egoismo, ed è brutto, specialmente quando si arriva a una certa
età...".
“Tuttolibri Laa
Stampa”, 1994
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