17.8.18

Gandhi, la verità e l'India. Le differenze con Tagore (Marco Restelli)

Tagore e Gandhi

«Spero di essere abbastanza umile per arrivare alla verità, qualsiasi sia la fonte da cui provenga» scriveva Gandhi nel 1928 in una lettera dal suo ashram di Sabarmati. La ricerca della verità e della nonviolenza, del suo significato sul piano religioso, morale, sociale e politico, la ricerca della sua praticabilità nella vita quotidiana fu il vero filo conduttore della vita del Mahatma, tanto che intitolò l’autobiografia Storia dei miei esperimenti con la verità. Poche figure del XX secolo sono altrettanto note e altrettanto fraintese del Mahatma; in Italia poi parlare di Gandhi senza far parlare Gandhi è stato uno dei numerosi malvezzi della cultura nazionale (con pochissime eccezioni, fra cui la vecchia e benemerita antologia einaudiana Teoria e pratica della nonviolenza a cura di Giuliano Pontara). Nonostante ciò il nucleo dell’universo gandhiano - la nonviolenza - permane di incandescente attualità in tutte le sue implicazioni -come dimostra per esempio la recente polemica su «Gandhi e gli ebrei» fra Vigevani e Pontara su “Micromega” e “Linea d’ombra”.
Difficilmente Gandhi può essere parcellizzato o fruito in pillole (a meno che non gli si voglia far dire tutto e il contrario di tutto): il pensiero forte gandhiano, straniero ai più in quest’epoca debolista, richiede un approccio olistico, rispettoso della sua ricca dialettica interna. Per questi motivi va accolta come un autentico evento editoriale la pubblicazione del primo volume della grande antologia gandhiana La forza della verità. Scritti etici e politici.
Un piccolo editore torinese, Sonda, in collaborazione con il movimento nonviolento e con i più attenti gandhisti italiani (oltre al citato Pontara, Gianni Sofri e Enrico Fasana) si è impegnato nella pubblicazione della più prestigiosa edizione europea di scritti gandhiani, quella curata per la Oxford University Press da Raghavan Iver (che risulta curatore anche dell'edizione italiana). I Collected Works del Mahatma Gandhi sono stati pubblicati in India in novanta volumi, l’antologia italiana sarà costituita da tre corposi tomi rappresentativi della sua produzione più significativa sul piano religioso e politico. Il primo porta come sottotitolo Civiltà, politica e religione; i prossimi due saranno intitolati Verità e nonviolenza e Resistenza nonviolenta e trasformazione sociale.

Sulla nonviolenza nessun trattato
Va notato che Gandhi scrisse in realtà pochissimi libri; l’antologia raccoglie quindi soprattutto i luoghi più consueti di espressione del pensiero gandhiano, cioè i numerosi articoli sulle riviste da lui stesso fondate e dirette, e l’enorme epistolario, che tenne con corrispondenti di tutto il mondo. «Scrivere un trattato sulla scienza dell’ahimsa (la nonviolenza, ndr.) va oltre le mie facoltà. Non sono fatto per scritti accademici. Il mio campo è l’azione» scrive Gandhi con la consueta umiltà nel 1946. Impegnato a fondere costantemente pensiero e azione, raramente Gandhi trovò il tempo per scrivere sistematizzazioni di ampio respiro: una di quelle rare occasioni fu il lungo viaggio in nave compiuto dall’Inghilterra all’India nel 1909, durante il quale scrisse Hind Swaraj (L’autogoverno dell’India); l’opera, inclusa nel volume antologico, costituisce un «manifesto d’accusa» contro la civiltà occidentale e una delle più evidenti manifestazioni della convinzione gandhiana riguardo alla superiorità dei valori espressi dalla civiltà indiana.
È in base a questa convinzione che Gandhi, a differenza degli altri leader nazionalistici, si batte contro gli inglesi per fare dell’India non solo un paese libero ma soprattutto un paese diverso dall’Inghilterra: «l’Hindustan non deve diventare un Englistan». Gandhi, che da giovane era stato avvocato, si scaglia in Hind Swaraj contro gli avvocati, i medici, i notabili indiani anglicizzati. Il lungo soggiorno londinese della sua gioventù gli è servito per capire tutto ciò che non vuole.
Oltre a Hind Swaraj l’antologia presenta cinque gruppi di scritti raccolti tematicamente, a cominciare dalle opinioni di Gandhi su se stesso e la propria missione. Vi è poi una sezione dedicata alle influenze culturali esercitate su Gandhi dai libri letti (soprattutto in carcere; Sandhi utilizzava infatti le frequenti incarcerazioni «negli alberghi di Sua Maestà» come occasioni per dedicarsi alla lettura), e costituisce certo un motivo di interesse per il lettore notare la varietà degli apporti che concorrono alla formazione del pensiero gandhiano: dalla Bhagavad Gita al nazionalismo mazziniano (Mazzini e Garibaldi furono assai studiati dai nazionalisti indiani), da Tolstoj (con cui Gandhi tenne una fitta corrispondenza) a Ruskin, a Thoreau, di cui Gandhi ripeteva sempre la massima «il governo migliore è quello che governa meno». Una terza sezione è dedicata agli scritti sulla civiltà occidentale e quella indiana: la quarta e la quinta sono dedicate invece alle considerazioni sulla religione e sulla natura di Dio.
Religione, moralità, impegno sociale e politico sono assolutamente inscindibili in Gandhi, poiché in ciascuno di essi si rivela uno dei volti della verità, che è nonviolenza, il dharma, o legge morale, che si esprime nello spirito di tutte le religioni. «Le religioni sono strade diverse che convergono nello stesso punto» scrive in Hind Swaraj. Da qui il suo costante sforzo di far superare agli indiani le loro divisioni (come l’ostilità fra hindu e musulmani]; unirete la perenne preoccupazione del Mahatma. Anche nei confronti degli avversari politici il Gandhi unitario è contemporaneamente ferreo ed elastico: non considera suoi nemici gli inglesi bensì il loro modello di civiltà, perciò si dichiara disposto (al contrario degli altri nazionalisti) ad accettare perfino che gli inglesi rimangano in India... purché siano disposti a vivere secondo i valori morali della tradizione indiana. Il ruolo centrale della religione (ma dovremmo dire: religiosità) nel pensiero di Gandhi non significa che egli sia disposto ad accettare le forme di oppressione di derivazione religiosa; lo testimonia la lotta che per tutta la vita lui, profondamente hindu, condusse contro tradizioni hindu come il matrimonio infantile o la prostituzione nei templi, e a favore della promozione sociale degli harijan, gli intoccabili, destinati dal sistema castale hindu a vita miserrima. La sua opera come la sua vita si possono osservare correttamente solo con un punto di vista olistico, lo stesso che lo animò nell’approccio a qualsiasi tematica, problema culturale o battaglia politica. Valga come esempio quanto scriveva nel 1926: «Per quanto mi riguarda la parola politica è inclusiva. Non separo le diverse attività - politica, sociale, religiosa, economica - in scompartimenti a tenuta stagna. Li considero tutti come un insieme indivisibile, ognuno confluisce negli altri e li influenza».
In base allo stesso approccio, Gandhi nega con risolutezza che il fine giustifichi i mezzi: non vi può essere separazione fra l’uomo, la sua morale, la sua condotta privata, le sue battaglie politiche. Il nostro traguardo è in noi: «Se noi cerchiamo la giustizia, dovremo essere giusti con gli altri» scrive ancora in Hind Swaraj.
Per una felice combinazione, l’approccio gandhiano è confrontahile ora con quello di un suo grande interlocutore, Tagore, di cui Bollati Boringhieri ristampa una serie di saggi politici in un’antologia (da anni introvabile) curata dall’Ismeo e intitolata La civiltà occidentale e l’India. Si tratta di articoli e testi di conferenze in cui il grande poeta bengalese (premio Nobel per la letteratura nel 1913) esprime la propria visione universalistica dell’uomo e si pronuncia a favore di una crescita prima morale e poi politica dell’India, spesso scendendo in polemica con Gandhi che com’è noto si rifiutava di separare le due cose. I due si conoscevano personalmente e si stimavano assai (fu Tagore a chiamare Gandhi Mahatma, cioè «grande anima»), ma molto li divideva sul piano politico. Così, la lettura in parallelo dei libri dei due maestri morali del risorgimento indiano può risultare utile anche per fare reciproca luce.

Letture parallele
Entrambi pensano che l’India sia caduta in mano agli occidentali perché ha abbandonato la propria cultura e le proprie tradizioni, entrambi considerano indispensabile il risveglio morale del proprio popolo, ma già qui i due si dividono: Gandhi vede nell’azione politica lo strumento di questo risveglio, Tagore no (il che non gli impedirà di compiere talvolta gesti politici, ma di valore solo simbolico). Gandhi considera la civiltà occidentale intrinsecamente basata sulla violenza e la condanna senza appello, Tagore pensa invece che gli indiani possano imparare molto dal liberalismo europeo (ma si ricrederà, deluso, quando l’Europa cadrà in mano al nazifascismo).
Gandhi lancia campagne di boicottaggio delle stoffe occidentali, invita gli indiani a bruciare nelle piazze gli abiti inglesi e a filare da sé le proprie stoffe con l'arcolaio. Tagore considera foriera di violenza questo tipo di politica, teme che Gandhi venga strumentalizzato da chi non capisce la sua legge dell amore e della nonviolenza, e inoltre non comprende la visione mistica di Gandhi secondo cui il lavoro di filatura all’arcolaio è anche un esercizio di meditazione spirituale.
Leggendo gli articoli contenuti nelle due antologie, il duello a distanza fra Gandhi e Tagore appare affascinante: in esso si rispecchiano non solo un’epoca e una civiltà ma due concezioni diverse del rapporto fra teoria e prassi, fra pensiero e azione. Resta la straordinaria attualità della pratica nonviolenta gandhiana, della sua lezione sul legame fra fini e mezzi, e la necessità di una riflessione sul satyagraha, la «forza della verità» che è alla base dei metodi di lotta non-violenta.
Resta l’attualità di un’utopia che Gandhi esprimeva così nel 1940: «La strada della violenza è antica e stabilita. Non è così difficile operare delle ricerche su di essa. La strada della nonviolenza è nuova. La scienza della nonviolenza sta ancora prendendo forma. Non siamo ancora consapevoli di tutti i suoi aspetti. C’è un vasto campo di ricerca e di sperimentazione in questo settore. Voi potete applicare tutto il vostro talento in ciò. Per me la nonviolenza è un qualcosa da evitare se è una virtù privata. Il mio concetto di nonviolenza è universale. Appartiene alle masse e io sono qui per servirle. Tutto ciò che non può arrivare alle masse non fa per me [...] Noi siamo nati per provare che la verità e la nonviolenza non sono solo regole di condotta personale. Esse possono diventare la politica di un gruppo, di una comunità, di una nazione. Non abbiamo ancora provato questo, ma solo questo può essere lo scopo della nostra vita».

“La talpa libri – il manifesto”, 29 novembre 1991

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