12.9.18

Dino Risi per i settant'anni di Vittorio Gassman

Vittorio Gassman nel film "Il sorpasso" (Dino Risi, 1962)

“Ecco un grande attore che non fu mai impallato”. Questa è l’epigrafe che un giorno Gassman, scherzosamente, disse che avrebbe voluto sulla sua tomba. «Impallare», nel gergo del cinema, significa mettersi tra qualcuno e la macchina da presa. Impedendogli cioè di essere visto. Se quel «qualcuno» è un grande attore, il malcapitato che lo ha impallato può passare un brutto quarto d’ora. Se invece è un attore, o un’attrice, di pari importanza, tra i due avviene una subdola lotta a colpi di gomito, quale potrebbe verificarsi tra due ciclisti durante un arrivo in volata. Gassman non fu mai impallato.
Questo la dice lunga sulla sua continua voglia di vincere. Che l’ha portato, nei suoi rapporti con il teatro, il cinema e le donne, qualche volta a tentare un sorpasso azzardato. Io che lo conosco (o credo di conoscerlo) da più di trent’anni (un’amicizia che dura grazie alla nostra scarsa frequentazione) sapendolo poco incline ai bilanci, voglio provare a tracciare un suo identikit, o ritratto o meglio autoritratto, poiché mi servirò delle sue parole estrapolate dal bel volume che lo riguarda, curato qualche anno fa da Giacomo Gambetti per l’editore Gremese. Un identikit - poco affidabile e sommario come tutti gli identikit - dal quale però emergono tre belle componenti del carattere di Gassman: grande intelligenza, morbosa sensibilità, spietata sincerità, qualità che spiegano perché lo stimo ma soprattutto perché gli voglio bene.
La sua memoria mi ha sempre sbalordito. Veniva sul set, dava un’occhiata al copione, diceva: «Quando vuoi». Sua madre Luisa (attrice mancata) raccontò che già a tre anni Vittorio aveva imparato a memoria una lunga poesia che faceva parte del programma di scuola della sorella Mary, avendogliela ascoltata ripetere non più di due volte. E sulla sua nascita come attore Vittorio dice: «Credo di aver recitato la prima volta quando accompagnai mio padre al cimitero. Un istintivo bi-sogno di reagire al dolore mi condusse a una sorta di sdoppiamento, di partecipante astrazione, in cui ancora oggi riconosco il primo germe della mia vocazione di artista. Ricordo la precisa sensazione di quel corteo, della gente che si scopriva al passaggio, di me desolato ma cosciente protagonista dell’avvenimento».
A teatro Vittorio andò dritto come una spada, al cinema invece faticò molto. «Vedevo ogni tanto le proiezioni delle sequenze, questa mia faccia totalmente marmorea, non riuscivo assolutamente a farle esprimere nulla» (il film è Daniele Cortis di Mario Soldati). Il teatro lo esaltava, il cinema lo faceva spesso vergognare. «Andai a vedere Il cavaliere misterioso di Freda in un cinema romano. Nell’ultima scena, quando io arrivo sulla piazza di Pietroburgo presso il palazzo di Caterina, con una troika, c’era un primo piano di me che frustavo i cavalli, che scendevo e chiedevo ”dov’è l’imperatrice” o roba del genere: e lì un ragazzotto romano, emblematico ma vero, dietro le mie spalle, si alzò e tendendo la mano gridò “ma si stai a piazza Margana!”, ed era assolutamente vero. Ero tra il pubblico, davanti a lui, e mi nascosi cercando di non farmi vedere...». E dopo tanti anni vissuti da antipatico, ecco che Monicelli, contro il parere di tutti, lo vuole in un ruolo simpatico nei Soliti ignoti. È l’anno 1958. Gherardi, l’art director, «mi combinò una ”faccia”, mi sbassò la fronte, mi allargò le orecchie, mi allargò il naso, mi distrusse come idolo marmoreo, storico, e fece di me un personaggio simpatico, usando, certo, anche delle mie qualità di attore che indubbiamente credo avessi». (...) Del Sorpasso dice: «Qui ebbi per la prima volta la possibilità di presentarmi, con risultati felici, con la mia faccia, finalmente distesa, finalmente liberata dai ghigni e dalle maschere della trasformazione, della caratterizzazione».
Ma aggiunge, ed è una spia dell’altro Gassman, del Gassman dietro la maschera: «Fu un’operazione di totale naturalezza e disinvoltura, tanto più apprezzabile in quanto, tutto sommato, il mio ruolo personale vero e proprio era più vicino al personaggio di Trintignant. Cioè io continuavo a portare i miei pesi, le mie introspezioni, le mie complicazioni, le mie timidezze, i miei intellettualismi eccetera...». (...) Ma, per finire questo breve schizzo, lascio ancora la parola a Gassman, a una sua un po’ esoterica divertente dichiarazione sullo sforzo mnemonico: «Mentre recito, c’è una piccola zona del mio cervello che tiene conto di quanti respiri prendo e che privilegia i gesti della parte sinistra che mi è più simpatica di quella destra, che raffigurare il maggior numero di coincidenze sul numero cinque, che mi è simpatico, o sul numero nove, che per me è il nord sportivo e pionieri-stico o l’undici che rappresenta i paesi scandinavi. È tutta una specie di piccola selva mitologica, emblematica, che fa una rete, e che forse toglie qualcosa alla banalità di prendere semplicemente una frase e di dirla per rendere conto di cosa stia succedendo...».
Questo campione di prosa un po’ schizofrenica mi ricorda una definizione della poesia che citava spesso Montale: la poesia è l’arte di comunicare delle idee per mezzo di parole che quelle idee non esprimono affatto...

"l'Unità”, 1 settembre 1992

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