L’idea che le cose
brutte diventino meno brutte se le ribattezziamo con un nome
grazioso, architrave del politically correct americano, non ha
attecchito più di tanto in Europa. O almeno così sosteneva Robert
Hughes in un libro dei primi anni Novanta, La cultura del piagnisteo:
«In Francia nessuno ha pensato di ribattezzare Pipino il Breve Pépin
le Verticalement Défié, né in Spagna i nani di Velázquez danno
segno di diventare las gentes pequeñas». Hughes credeva che il
politicamente corretto fosse figlio di un’abitudine tutta americana
alla circonlocuzione cortese. Di certo sottovalutava la nostra lunga
consuetudine con le caritatevoli astruserie dell’eufemismo
burocratico, dove il povero diventa impossidente e il malato cronico
lungo degente. E forse avrebbe potuto dare un’occhiata a un vecchio
film di Marco Bellocchio, Sbatti il mostro in prima pagina, in
cui Gian Maria Volonté, direttore di un giornale benpensante,
impartisce a un suo redattore una lezione di linguaggio
giornalistico, smontando parola per parola il titolo che questi aveva
dato al suo pezzo: «Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia
vivo padre di cinque figli». Il disperato si addolcisce in
drammatico, il disoccupato in rimasto senza lavoro e il padre di
cinque figli — siccome il poveretto è calabrese — diventa
semplicemente un immigrato, «una parola sola che contiene
implicitamente il disoccupato e il padre di cinque figli ma dà anche
un’informazione in più.
Immigrato è una
delle parole che il linguista Federico Faloppa, da anni studioso
dell’intolleranza che si annida nel linguaggio, prende in esame nel
libro Razzisti a parole (per tacer dei fatti), pubblicato da
Laterza. Non che immigrato sia di per sé una parola razzista,
beninteso. Ma usata pigramente dalla stampa o nel parlare comune,
come quando chiamiamo alunni immigrati dei bambini nati in Italia, si
porta dietro un sottinteso sgradevole, che non è di forma ma di
sostanza: l’idea che una condizione per definizione transitoria —
la migrazione, lo spostarsi da un luogo all’altro — diventi un
marchio indelebile che si trasmette tra le generazioni. Lo stesso
vale per clandestino, un aggettivo lentamente trasformato in
sostantivo, quasi a designare una seconda natura, che nel linguaggio
giornalistico si associa a tutto un lessico da invasioni barbariche:
orde, eserciti, sbarchi, ondate. Ogni parola è come un fazzoletto
sporgente dal cilindro di un mago: tirane un lembo e ne uscirà fuori
un mondo. Etnico, per esempio. Parola dalla lunga storia che
s’intreccia con il colonialismo e lo studio dei popoli
extraeuropei, e che finisce per designare vezzosamente, nell’uso
comune, ristoranti e mode vestiarie; oppure, al contrario, scontri e
pulizie. Che cosa indichi esattamente non è chiaro, ma forse ci
risentiremmo se un ristorante italiano fosse definito etnico (mica
siamo africani) o se l’aggettivo fosse speso per l’ambizione dei
nostri padani a separarsi dagli etruschi.
Faloppa cita studi e
ricerche, analizza a campione articoli di giornale, conversazioni
informali su Internet, dichiarazioni di politici, documenti
governativi. Non è un fanatico, sa bene che dal razzismo delle
parole non si passa necessariamente alle vie di fatto. Sa anche,
però, che un ponte c’è. «Studiate a memoria il Dizionario dei
sinonimi e vi assicuro l’impunità per i nove decimi delle
bricconate, che l’uomo può fare in questa valle d’ipocrisia»,
scriveva più di cent’anni fa Paolo Mantegazza. E così, la
creazione di classi separate per i figli di immigrati diventa, nella
mozione proposta alla Camera nel 2008 dal leghista Roberto Cota,
«discriminazione transitoria positiva». Altre volte Faloppa è
costretto a constatare che il galateo del discorso pubblico è andato
a farsi benedire, e che nessuno si stupisce più di tanto se un
editoriale di Vittorio Feltri sui fatti di Rosarno porta il titolo
«Stavolta hanno ragione i negri». A pensarci, è la via anomala al
«politicamente scorretto» di un Paese che non ha conosciuto la
correttezza politica se non nella forma dell’evasività
democristiana. Poi, quando abbiamo preso a scimmiottare la moda
americana, i fronti si sono divisi: da un lato l’isteria
linguistica di certo bigottismo progressista, dall’altro le
intemperanze di quanti hanno colto al balzo il pretesto per dare
sfogo alla loro beceraggine, recuperando il piacere proibito di
urlare negri, froci e terroni (o anche, tra certi qualunquisti
abusivamente accampati a sinistra, nani, ciccioni…).
Ma guai a sopravvalutare
il potere delle parole. Perché, diceva ancora Hughes, «i teppisti
che una volta pestavano i froci adesso pestano i gay».
La lettura – Corriere
della sera, 11 dicembre 2011
Des plus belles histoires et actualit?s qui buzzent.
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