Ugo Nespolo, Account, 1988, acrilico su tavola |
Sono due fratelli
destinati a lasciare una traccia profonda nella cultura del secolo
appena trascorso quelli che, nella primavera del 1940, si scambiano
la manciata di lettere raccolte in questo volumetto. Da un lato la
filosofa, saggista e mistica Simone Weil, dall’altro André, uno
dei più grandi matematici del Novecento. Dalla matematica e
filosofia della Grecia classica all’attualità della Francia in
guerra, queste lettere toccano i temi più diversi e ci rivelano «il
genio dell’attenzione, l'aristocrazia dell’intelligenza» dei due
fratelli, per dirla con le parole della curatrice Maria Concetta
Sala, che ne ha illuminato i testi con un ricchissimo apparato di
note (Simone Weil – André Weil, L'arte della matematica,
Adelphi, 2014). Genio precoce dalle «straordinarie doti»
intellettuali, André «ha avuto un’infanzia e una giovinezza
paragonabili a quelle di Pascal» riconoscerà Simone, consapevole
«di non poter sperare in alcun modo di accedere a quel regno
trascendente ove entrano soltanto gli uomini di autentica grandezza e
ove abita la verità». E non sorprende se fin dalla prima lettera
chiede al fratello, renitente alla leva e detenuto in un carcere
militare in attesa di processo, di «riflettere sul modo di far
intravedere ai profani come me in che cosa consistano esattamente
l’interesse e la portata dei tuoi lavori».
In carcere tempo ne ha da
vendere, e «per te sarebbe un ottimo esercizio» invece di prendere
in giro «quelli che filosofeggiano sulle matematiche senza
conoscerle». Da parte sua, Simone si è «messa a fare un po’ di
babilonese» (!), ha fatto la conoscenza dell’epopea di «un certo
Gilgameš», e ha iniziato a leggere le Lezioni di Otto
Neugebauer sulla storia della scienza antica (babilonese e sumera),
concludendo che i sumeri sono gli inventori dei miti mesopotamici, e
«i miti sono ben altrimenti interessanti rispetto all’algebra»
dei babilonesi. Gran parte della loro algebra è confluita nella
matematica greca, spiega André, e ciò che la «rende oltremodo
originale è forse il fatto che non esiste l’approssimazione:
questo ha ucciso il numero a vantaggio del logos (è qui tutto il
dramma della scoperta degli irrazionali) e ha mandato in rovina il
pitagorismo per approdare a Platone e Euclide».
Ma, ribatte Simone, «non
risulta che la scoperta degli incommensurabili abbia operato una
rottura nella continuità dello sviluppo» e non ha certamente
«mandato in rovina il pitagorismo, come asserisci tu». Altrimenti i
pitagorici non avrebbero certo adottato il pentagono stellato,
formato dalle diagonali di un pentagono regolare, come segno di
riconoscimento giacché il rapporto tra la diagonale e il lato è
irrazionale (è il cosiddetto “numero aureo”). Che vi siano
rapporti “che non sono nominabili”, rapporti incommensurabili,
secondo André “l’espressione stessa è tanto sconvolgente che
non posso credere che in un’epoca così drammatica nella sua
essenza, e che ha conosciuto e provato a tal punto l’angoscia, un
fatto così straordinario abbia potuto essere preso per una semplice
scoperta scientifica».
Per Simone, anziché
essere una «sconfitta per i Pitagorici, come ingenuamente si crede»,
la scoperta degli irrazionali è stata «il loro più meraviglioso
trionfo». A decretare la loro rovina è stato invece il massacro dei
pitagorici, e poi anche la demagogia dei sofisti che, in ultima
istanza, ha alimentato l’imperialismo romano che ha distrutto la
civiltà ellenica. A suo dire, la matematica costituiva per i Greci
non «un esercizio della mente, ma una chiave della natura» cercata
non col proposito di dominare la natura con la tecnica ma, ripete in
queste lettere, «al fine di stabilire una identità di struttura tra
la mente umana e l’universo”. Con l’assillo della purezza
dell’anima, la matematica «aiutava a imitare Dio», a «fare
apparire il mondo come “la città di tutti gli esseri dotati di
ragione”». Che forse caratterizza Simone, più che la matematica
greca. Si fa un torto pensandola «solo come una speculazione
razionale e astratta». Certo lo è ma, dice Simone, è anche «una
scienza della natura, una scienza concreta e anche una mistica». E
altrove dirà che è «anzitutto una sorta di poema mistico composto
da Dio stesso». Del resto anche Platone era a suo dire un mistico,
addirittura «il padre della mistica occidentale».
Alla richiesta della
sorella di parlare delle proprie ricerche a non specialisti, in un
primo tempo André obietta che sarebbe come «spiegare una sinfonia a
dei sordi». Certo si può fare servendosi di immagini, parlando di
«temi che si rincorrono, s’intrecciano, si coniugano o si
separano, di tristi armonie o di trionfanti dissonanze», ma l’esito
non sarebbe certo incoraggiante: «tutt’al più un componimento
bello o brutto», che nulla ha da spartire con quanto si voleva
descrivere. Insomma, conclude André Weil, «la matematica non è
altro che un'arte; una sorta di scultura in una materia dura e
resistente”. Il paragone che gli viene naturale è con
Michelangelo, che ha affidato ai versi di sonetto l’idea che il
blocco di marmo contenga già la statua, e lo scultore debba solo
“liberarla” togliendo il superfluo. Così lavora il matematico,
«sottomesso alle asperità della materia con cui lavora». L’opera
che ne risulta «è un’opera d’arte, e in quanto tale
inspiegabile». Con buona pace di chi si affatica nella divulgazione,
verrebbe da dire.
Non riesco a concepire in
cosa consista la “materia dura” dell’arte matematica, confessa
Simone. E azzarda al fratello: «La materia del tuo lavoro non è
forse è l’insieme dei lavori matematici precedenti?». Certo ha in
mente le parole di André quando in uno scritto successivo commenta
sarcastica: «Gente che in pubblico si fa passare per sacerdote della
verità, degrada la propria parte» a quella di un giocatore di
scacchi o uno scultore. Se quest’ultima è la vocazione, «meglio
fare lo scultore invece che il matematico”.
Finalmente André cede
alle ripetute richieste della sorella e riassume in una lunghissima
lettera il senso delle sue ricerche, collocandole nella recente
storia della teoria dei numeri e illustrando il ruolo dell’analogia
per la scoperta matematica con toni («torbidi e deliziosi riflessi»,
«carezze furtive», «palpeggiamenti un poco adulteri» «turbamento
di sensi») più adatti alla letteratura erotica che a quella
scientifica. Della tua lettera «non ho capito niente» ammette
Simone in un abbozzo di risposta. Il che non le ha impedito di
riassumerla (molto verosimilmente per chi doveva difendere il
fratello davanti al tribunale militare) «con diabolica abilità»
come dice ella stessa con autoironia, «in modo da suggerire che non
vi sono altri che Fermat, Gauss e tu». Certo, un paradosso che la
sorella ha «preso un po’ troppo alla lettera».
Il Sole 24 Ore –
Domenica, 24 maggio 2018
À voir si… on veut voir une série familiale originale.
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