17.9.18

1966, l’anno che cambiò l’architettura italiana (Manuel Orazi)

GRAND HOTEL COLOSSEO, Superstudio, Monumento continuo, 1969

Chi non ha idee ha anniversari da ricordare, lo scriveva già Giacomo Leopardi. Tuttavia un’eccezione va senz’altro fatta per il 1966, anno intenso e ricco come pochi altri del Novecento, almeno per l’architettura e il design non solo italiani. Cinque anni or sono Antoine Compagnon ha anticipato la celebrazione con un corso tenuto al Collège de France (disponibile online) dal titolo appunto 1966: Annus mirabilis, per evidenziare come in quell’anno siano venuti alla luce i pilastri di quella che poi, retrospettivamente, sarà chiamata la French Theory (vale a dire una banda di pensiero internazionalmente nota e formata da autori come Foucault, Derrida, Deleuze, oltre a cineasti, pittori e scrittori). Compagnon però non è stato il primo a studiare un singolo anno come un nodo storico posto in un luogo preciso e non come momento di accumulazione di eventi.
Nel 2008 lo storico tedesco Karl Schlögel ha pubblicato un denso volume (appena tradotto anche da noi, L’utopia e il terrore. Mosca 1937. Nel cuore della Russia di Stalin, da Rizzoli) dove mette a punto un’intuizione di Michail Bachtin, il cronotopo: ovvero l’accelerazione e la radicalizzazione di eventi, di processi intrecciati e già in atto e con esiti successivi duraturi in un’unità di luogo, tempo e azione. Se gli anni Sessanta costituiscono il decennio dell’apogeo della modernizzazione su ogni piano – da quello infrastrutturale e tecnologico, con la corsa allo spazio al suo massimo storico nella rivalità fra Usa e Urss, fino al cinema che passava definitivamente al colore – l’Italia gioca un ruolo del tutto particolare nel 1966.
Da un lato perché ha una produzione cinematografica eccezionale (Uccellacci e uccellini di Pasolini, Blow up di Antonioni, Il buono il brutto e il cattivo di Leone, L’armata Brancaleone di Monicelli sono tutti del ’66) dall’altro perché sono anni di dominio di quel “demone della teoria” cui lo stesso Compagnon ha dedicato un altro fortunato libro. La particolarità italiana però consta nel delinearsi da subito di due anime che inizialmente non sembrano contrapposte, anzi si riconoscono felicemente in alcune affinità. Ma in seguito si allontaneranno inevitabilmente con la contrapposizione ideologica inaspritasi dopo il ’68.

Catastrofi radicali
Per Francesco Dal Co la storia dell’architettura italiana del secondo Novecento è spezzata in due, manco a dirlo proprio nel 1966, a causa di due catastrofi naturali come la frana di Agrigento e le alluvioni eccezionali di Firenze e Venezia. La modernizzazione diventa sinonimo di cieca speculazione edilizia (il libro omonimo di Italo Calvino e Le mani sulla città di Rosi sono entrambi del 1963), l’abbandono delle campagne e la relativa negligenza in fatto di cura del territorio sfociano in questi eventi traumatici che lasciano un segno indelebile anche a livello popolare. Le immagini degli “angeli del fango” e Il ragazzo della via Gluk di Adriano Celentano inaugurano la criminalizzazione del cemento, materiale dapprima simbolo di riscatto dalla miseria e d’ora in poi metafora del crimine che dura fino ai giorni nostri, con buona pace delle archistar internazionali dell’epoca, Pier Luigi Nervi e Riccardo Morandi, maestri delle opere pubbliche in cemento armato.
Proprio a Firenze l’alluvione fa avvicinare alcuni laureati o laureandi in architettura che, avendo perduto i loro piccoli studi e disegni precedenti, decidono di ripartire condividendo nuovi spazi e nuove idee. Nascono dunque in parallelo Superstudio (Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia cui si aggiungono i fratelli Roberto e Alessandro Magris, Gianpiero Frassinelli) e Archizoom (Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello, Massimo Morozzi) e in seguito gli altri gruppi fiorentini Ufo, 9999, Ziggurat oltre a Gianni Pettena e Remo Buti. Superstudio e Archizoom restano però i gruppi di punta, amici e rivali come i Beatles e i Rolling Stones dell’architettura radicale, le cui opere sono oggi conservate nei musei di mezzo mondo. I radicali esorcizzano il trauma dell’alluvione producendo inusitati disegni e collage di superfici a sviluppo infinito che inglobano dapprima parti di territorio e poi di città, amplificando l’invasione di questa “supersuperficie” che diviene presto anche metafora del consumismo e del sistema capitalistico portati però fino all’eccesso, radicalizzati cioè fino al livello di una distopia – alcuni membri di Archizoom erano vicini alle tesi contenute in Mario Tronti, Operai e capitale (Einaudi 1966). In generale però i radicali mostravano più attenzione verso le periferie, irridendo apertamente i monumenti nella serie di Superstudio chiamata “Italia vostra”, e i nuovi luoghi di aggregazione giovanile come le discoteche di cui sono stati i primi progettisti, lavori oggi osannati specie in Inghilterra.

Modernità spezzata
Se da un lato i radicali rinverdivano l’anima futurista (e pop) della cultura italiana in una città così conservatrice come Firenze, dall’altro autori attivi nella ben più progressista Milano infrangevano il tabù avanguardista della storia e del suo valore studiando i monumenti come “fatti urbani” (Aldo Rossi) e usandoli come “materiali progettuali” (Vittorio Gregotti) per dare forma a intere parti di città in continuità con il contesto storico. Continuità era appunto la parola aggiunta al titolo di Casabella da Ernesto N. Rogers, maestro sia di Rossi sia di Gregotti, entrambi ex redattori della rivista diretta dall’autore della Torre Velasca – un edificio “very milanese” secondo Alvar Aalto, che ironizzava così sullo storicismo neogotico e pre-postmoderno della torre dei Bpr. Ecco allora che Gregotti e Rossi (che nel ’66 divideva lo studio con Giorgio Grassi) rinverdivano una linea metafisica in architettura, preoccupandosi prevalentemente dei centri storici o di ricostruire una relazione con essi che non interessava affatto i radicali – e agli antipodi di Giancarlo De Carlo: questi, il cane sciolto del modernismo italiano, proprio allora pubblicava un primo bilancio della sua articolata opera di ampliamento e ricostruzione di Urbino in totale discontinuità formale (non a caso dieci anni prima si era dimesso in polemica dal comitato di redazione di Casabella Continuità).

Contrappunto americano
Un logo di Vignelli
Nel 1966 gli effetti del cronotopo italiano si riscontrano anche negli Usa. Da un lato Robert Venturi, che è italoamericano di Filadelfia (oggi fresco 90enne), pubblica un libro prodotto dal MoMA di New York che è tutto un programma, Complessità e contraddizione in architettura, originalissimo manifesto di architettura moderna: in copertina ha un’opera di Michelangelo, Porta Pia. Il volume combina liberamente edifici storici, design pop e persino infrastrutture come gli asimmetrici e mastodontici viadotti dell’autostrada del Sole – inaugurata nel 1964 con un slogan irriverente verso il minimalismo del Bauhaus: less is a bore. Avevano giovato a Venturi i ripetuti soggiorni romani nonché lo studio dell’amata cultura manierista. A New York, dove nel 1966 Andy Warhol diventa il manager dei Velvet Underground, arriva Massimo Vignelli che insieme ad altri fonda la Unimark, studio grafico che teorizza l’immagine coordinata e si offre alle grandi corporation dopo aver usato come prova generale la grafica della linea 1 della metropolitana milanese (1965). Di lì a breve tutti i prodotti e i grandi marchi americani vengono “svizzerizzati” da una mano italiana, attraverso l’uso rigoroso dell’Helvetica, tentativo riuscito di costruire un mondo perfetto ma chiuso che vive indifferente e altero sopra le turbolenze del Vietnam, delle lotte per i diritti civili e delle rivolte studentesche. Proprio come un Monumento Continuo, appunto.


Pagina 99, 17 settembre 2016

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