10.10.18

Dickens come Gulliver (Stefan Zweig)


Nacque nel 1812: proprio quando spalanca i suoi occhi sul mondo, il mondo si rabbuia, si spegne la fiamma ardente che minacciava di infiammare l’ormai fatiscente dimora europea. Napoleone viene sconfitto dalla fanteria inglese a Waterloo, e l’Inghilterra assiste alla definitiva resa del suo nemico dichiarato, privato del potere e relegato su un’isola remota. Dickens non vide tutto questo, non vide come la fiamma del mondo, quel vivo bagliore della storia, viaggiò da un’estremità all’altra dell’Europa: i suoi occhi hanno di fronte la sola nebbia inglese. La sua giovinezza non ha eroi, perché essi vivono ormai nel passato.
Alcuni singoli individui non lo accettano, vogliono a tutti i costi e con coraggio far retrocedere la ruota del tempo che scorre inesorabile, restituire al mondo lo slancio impetuoso del passato; ma l’Inghilterra ambisce alla pace e li ostacola. Il rifugio per questi uomini è nel Romanticismo, nei suoi angoli segreti; essi tentano di riattizzare la fiamma, di risvegliare le piccole scintille rimaste, ma il corso del destino non si può dirigere a proprio piacimento: Shelley annega nel Tirreno, Lord Byron muore per le conseguenze di una febbre reumatica a Missolunghi: è un tempo che non premia le imprese più ardite.
Il mondo è color cenere. L’Inghilterra consuma comodamente il bottino ancora fresco; il borghese e il mercante regnano sovrani e si stiracchiano sul trono come fosse un divano. L’Inghilterra digerisce. Di conseguenza, per andare incontro al gusto dell’epoca l’arte doveva essere digestiva, non doveva urtare, esaltare, scuotere, ma solo accarezzare e sfiorare, doveva essere sentimentale, mai tragica.
Non c’era spazio per il fremito che trafigge il petto come un lampo, che mozza il respiro e gela il sangue; tutto questo era fin troppo noto per via delle notizie che giungevano dalla Francia e dalla Russia, per cui ora si desiderava solo un leggero brivido, un blando intrattenimento. La gente dell’epoca voleva un’arte pacata, dei libri da sfogliare piacevolmente al calore di un caminetto, mentre fuori infuriava un temporale; libri che allo stesso modo innocentemente guizzassero crepitando di fiammelle troppo piccole per incendiare; un’arte capace di scaldare il cuore come il tè, ma che non lo inebriasse col suo ardore.
I vincitori di allora erano diventati così cauti e timorosi da voler conservare solo i traguardi raggiunti, e non osare più nulla, non cambiare niente. Avevano paura persino della profondità che i propri sentimenti erano in grado di raggiungere. Sia nei romanzi che nella vita desideravano trovare passioni temperate e piacevoli, non estasi sconcertanti, ma sentimenti quieti e normali. La felicità per gli inglesi dell’epoca consisteva nella comodità, l’estetica nella misura, la sensualità nella pruderie, il sentimento nazionale nella lealtà, l’amore nel matrimonio. I valori della vita diventano esangui. L’Inghilterra è appagata e non vuole cambiamenti di sorta. Un’arte che ambisce al successo in un paese così sazio deve essere a suo modo appagata, deve elogiare ciò che è già acquisito e non porsi al di sopra di esso. E questo desiderio di un’arte comoda, educata e digestiva trova il suo genio come una volta l’Inghilterra elisabettiana aveva trovato il suo Shakespeare. Dickens incarna il bisogno artistico dell’Inghilterra dell’epoca. L’essere l’uomo giusto al momento giusto gli procurò la gloria, ma l’essere stato soggiogato da questo bisogno costituì la sua tragedia. La sua arte è infarcita della morale ipocrita di un’Inghilterra sazia e pigra, e se all’interno della sua opera non regnasse una forza poetica così grande, se il suo humour brillante e policromo non coprisse la reale mancanza di tonalità dei sentimenti, egli rimarrebbe relegato al mondo inglese e lascerebbe noi assolutamente indifferenti, come del resto accade per tutti quei romanzi inglesi ben scritti ma per noi miseri che circolano oggi. Solo quando si detesta con tutta l’anima la stupida ipocrisia della cultura vittoriana si può valutare giustamente il genio di un artista che ha trasformato la più insignificante delle vite in poesia.
Dickens non si è mai opposto apertamente a quest’Inghilterra, anzi; ma nel profondo, forse inconsciamente, la sua era la lotta dell’artista contro l’uomo medio inglese. Inizialmente si muoveva con passo deciso e sicuro, ma poi, sul terreno sabbioso, un po’ duro e un po’ cedevole della sua epoca, perse parte delle sue forze e finì per calcare sempre più spesso le comode orme della tradizione. Dickens fu sopraffatto dal suo tempo, e spesso tendo nella mia immaginazione ad associare il suo destino a quello di Gulliver presso i Lillipuziani. Mentre il gigante dorme, questi uomini minuscoli lo immobilizzano a terra con migliaia di corde, e quando si sveglia lo tengono legato e non lo liberano prima che si sia arreso promettendo di rispettare le leggi del paese. Allo stesso modo la tradizione inglese ingabbiò e tenne chiuso all’interno delle sue limitazioni Dickens, quando ancora non era noto: con i successi essa lo ancorò al suolo inglese, procurandogli la gloria ma allo stesso tempo legandogli le mani.

Da Dickens, elliot edizioni, 2013 – Trad. Anna Vivaci

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