12.10.18

Il paradosso dell’autonomia. Intellettuali nel PSI tra anni Cinquanta e Sessanta (Mariamargherita Scotti)



1. La diffusa convinzione della sostanziale inesistenza di una politica culturale socialista autonoma e rilevante ha mantenuto a lungo inesplorato il carattere specifico del rapporto tra intellettuali e PSI nel secondo dopoguerra, se si esclude qualche cenno in alcune delle poche sintesi di storia del partito nell’Italia repubblicana (cfr. Degl’Innocenti 1993; Mattera 2004; Scroccu 2011), pochissime ricerche di lungo periodo sulla cultura socialista e una serie, nutrita in verità, di saggi dedicati a singoli intellettuali o a esperienze culturali specifiche. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una letteratura a carattere perlopiù politico e memorialistico, che ha conosciuto una certa fortuna una prima volta nel corso degli anni Settanta e in seguito, dopo il 1989, quando si è ricercato, tra gli intellettuali della sinistra socialista, il filo rosso di un’«Italia antimoderata» in qualche modo estranea e alternativa alla tradizione intellettuale comunista. Una letteratura che, per quanto si sia arricchita recentemente di contributi storiografici originali, si è concentrata soprattutto su alcuni esponenti di spicco della cultura e della politica socialiste piuttosto che sulla funzione ricoperta dal PSI come primo contenitore di un dissenso che avrebbe trovato, negli anni Sessanta, il proprio liberatorio sbocco in una militanza al di fuori dei partiti.

2. Come spiegare che molti dei “padri” della Nuova sinistra (Raniero Panzieri, Franco Fortini, Gianni Bosio, Luciano Della Mea) avessero militato tra le file di un partito che dalla fine degli anni Cinquanta aveva cominciato una progressiva trasformazione in partito riformista e di governo? Dove cercare le ragioni per cui molti dei giovani che si impegnarono, nei primi anni Sessanta, nella costruzione di una sinistra alternativa alle organizzazioni storiche del movimento operaio (Vittorio Rieser, Pino Ferraris, Gianni Alasia, Emilio Soave tra gli altri) avessero intrapreso il loro apprendistato politico, tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi Sessanta, proprio nell’orbita socialista?

3. Rispondere a questi interrogativi significa misurarsi con un paradosso che consenta di andare oltre il semplice riconoscimento del carattere pluralista del PSI del dopoguerra. Un paradosso che ha a che fare con la declinazione politica e culturale della parola «autonomia».

Luciano Della Mea
4. Come è noto, il PSI degli anni Cinquanta fece dell’«autonomia» la parola d’ordine che l’avrebbe condotto, nell’arco di un decennio e attraverso alterne vicende, dalla politica frontista all’elaborazione della strategia di centro-sinistra. Questa stessa parola, variamente intesa e declinata, fu agitata in quegli stessi anni da alcuni intellettuali militanti all’interno o ai margini del PSI, insofferenti nei confronti della politica di unità d’azione con il PCI e, in particolare, delle sue ricadute nel campo dell’organizzazione della cultura. Per costoro quella di autonomia era però una nozione carica di contenuti diversi – autonomia della cultura dalla politica, degli intellettuali dai dirigenti, della classe dal partito – e mirava a un’uscita “a sinistra” dallo stalinismo, che non aveva come esito necessario il nuovo modello di riformismo sul quale si stava orientando la maggioranza del partito. Fu anche in virtù di questo malinteso intorno alla definizione di autonomia che essi poterono restare tra le file del PSI almeno fino alla fine del decennio, trovando tribune e interlocutori per discutere argomenti e approcci che sarebbero diventati centrali nel clima politico-culturale degli anni Sessanta. Si trattava, infatti, solo in apparenza di un malinteso: fu piuttosto un’ambivalenza consapevolmente e abilmente sfruttata dalle correnti autonomiste del partito, e in più di un’occasione cavalcata dagli stessi intellettuali per ottenere spazi e visibilità nel dibattito politico-culturale.

5. Ripercorrerò qui alcune delle traiettorie più significative di questi intellettuali, usando il controverso richiamo all’«autonomia», declinata secondo tre diverse prospettive, come filo rosso di un percorso che li condusse dalla militanza dentro il PSI a immaginare nuove forme di partecipazione politica al di fuori di esso.

6. La prima declinazione di autonomia ha a che fare con due argomenti – storia del movimento operaio e cultura popolare – assai sensibili nel dibattito degli anni Cinquanta, che mostrano, ancor prima della crisi del ’56, alcune incrinature tra PSI e PCI.

7. La figura da cui muovere è quella di Gianni Bosio, mantovano, iscritto al PSI dal 1943, protagonista della riorganizzazione del partito in Lombardia e dunque esponente di spicco del rinnovamento dei quadri socialisti avviato da Lelio Basso negli anni della sua segreteria. In virtù dei suoi interessi di studioso (pur non avendo portato a compimento gli studi, aveva concordato con Antonio Banfi una tesi sul marxismo in Italia prima del 1892), Bosio fondò nel 1949 «Movimento operaio», bollettino storico-bibliografico inizialmente ciclostilato e autofinanziato. Cifra della rivista – che in poco tempo attirò nella sua redazione un buon numero di esponenti della nascente contemporaneistica italiana – erano il metodo filologico, lo scavo d’archivio, la pubblicazione di fonti e bibliografie, la cronologia e la storia locale. Lo scopo era quello di documentare, cominciando dalla raccolta di un patrimonio disperso di memorie e di carte, una tradizione rivoluzionaria italiana autoctona, che includesse senza censure la Prima internazionale come gli anarchici, le varie organizzazioni della classe prima della nascita del Partito socialista come le istanze spontanee del proletariato rurale. Era infatti convinzione di Bosio che «la classe operaia opera, costruisce, si organizza, pensa e si esprime in maniera propria», ed è dunque capace di esprimere una propria storia e una propria cultura, antagoniste ma non necessariamente subalterne. Di conseguenza è possibile studiare «la storia del movimento operaio in funzione del movimento operaio». Un approccio che gli attirò accuse di «filologismo» e «corporativismo» da parte degli storici comunisti, a cominciare dai redattori di «Movimento operaio». Il nodo cruciale del dissenso investiva proprio la rivendicazione di un’autonomia originaria della classe rispetto alla guida (e alla storia) di partiti e sindacati. Su questo punto gli orientamenti storiografici del PCI erano allora finalizzati alla ricerca della continuità del ruolo nazionale ed egemone della classe operaia (che dal filone democratico-repubblicano del Risorgimento conduceva alla democrazia repubblicana) e non potevano quindi concedere troppo spazio a una storiografia che ne accreditasse un’immagine sovversiva e antistatuale.

Gianni Bosio
8. Al di là degli esiti immediati della polemica (che portarono nel 1953 al licenziamento di Bosio da parte di Giangiacomo Feltrinelli, dal 1952 editore di «Movimento operaio»), è interessante notare come le posizioni “autonomiste” di Bosio, minoritarie all’interno del PSI, trovassero di lì a poco un importante strumento di visibilità nel rilancio della casa editrice del partito, le Edizioni Avanti!, che la Direzione gli affidò nel 1953. Questo rappresenta uno degli esempi più significativi della capacità della dirigenza PSI (che, al Congresso di Milano, aveva appena lanciato lo slogan dell’«alternativa socialista») di sfruttare a proprio vantaggio le iniziative di militanti che esprimevano posizioni critiche quando non esplicitamente eretiche. La ripresa dell’attività editoriale di partito, di cui Bosio si fece totalmente carico sia dal punto di vista organizzativo che finanziario, fu una delle prime occasioni, per il PSI, per mostrare le proprie intenzioni di rilanciare un impegno autonomo in campo culturale. D’altra parte le Edizioni Avanti! furono per Bosio una straordinaria tribuna dalla quale portare avanti la propria “eresia”, raccogliendo intorno a sé un gruppo di collaboratori che lo avrebbe seguito nelle future evoluzioni al di fuori del PSI, fino al cuore degli anni Sessanta e oltre, con l’attività delle Edizioni del Gallo, dei Dischi del Sole, del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto de Martino.

9. La sensibilità per il tema dell’autonomia operaia e contadina e, più in generale, la valorizzazione del momento spontaneo di iniziativa rivoluzionaria “dal basso” (con la conseguenza di mettere se non altro in discussione il ruolo del partito nel suo rapporto con le masse) riguarda in realtà più in generale una larga parte dell’intellettualità socialista (soprattutto “a sinistra”).

10. Si consideri il contributo originale fornito dagli intellettuali socialisti (Bosio, certamente, ma anche Alberto Mario Cirese) al dibattito sulla “cultura popolare”, che aveva trovato una prima occasione di verifica nel 1950, in seguito alla pubblicazione del saggio di Ernesto de Martino Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno. Fin da allora la discussione si era polarizzata intorno al nodo dell’alternativa tra spontaneismo e organizzazione, e molti intellettuali socialisti avevano mostrato nei confronti di De Martino un atteggiamento più aperto e interlocutorio di quello dei comunisti, di cui si era fatto portavoce, sulle pagine di «Società», Cesare Luporini, con la critica alle nozioni di «irruzione» delle masse popolari nella storia e di «imbarbarimento» della cultura marxista.

11. Il dibattito proseguì tra 1954 e 1955 intorno alla figura di Rocco Scotellaro, sindaco-poeta socialista di Tricarico morto nel 1953 a soli 30 anni. La pubblicazione delle opere di Scotellaro avvenne, postuma, per volontà di Carlo Levi e Manlio Rossi Doria, suoi amici e maestri. Non è possibile ricostruire qui il dibattito che si scatenò sulle riviste comuniste intorno al corpus poetico e letterario di Scotellaro, ma occorre almeno rilevare come la discussione sia stata soprattutto un pretesto per colpire la corrente meridionalista di terza forza (Levi e Rossi Doria, ma anche la rivista «Nord e Sud» di Francesco Compagna), accusata di congelare le masse contadine del sud in un’immobilità culturale fuori dalla storia, che non prendeva atto del cambiamento inaugurato nel secondo dopoguerra da una nuova stagione di lotte, con la conseguenza di rendere il Mezzogiorno incomprensibile «più che l’India e la Cina».

12. L’atteggiamento del PSI fu del tutto differente: nel febbraio 1955 si fece promotore, a Matera, del convegno Rocco Scotellaro intellettuale del Mezzogiorno, con il quale ascrisse di fatto il poeta lucano al proprio pantheon e aprì una finestra di dialogo con quello stesso meridionalismo criticato dai comunisti9. A dispetto degli intenti celebrativi, gli interventi dei relatori socialisti non si limitarono a rivendicare il valore esemplare dell’opera e della parabola esistenziale di Scotellaro, ma affrontarono di petto proprio il tema della «civiltà contadina meridionale», con coloriture certamente varie ma tutte ugualmente orientate a valorizzare il momento autonomo della formazione di una cultura che aveva fatto della propria miseria e arretratezza uno strumento di resistenza all’egemonia della cultura nazionale. Così scrisse Panzieri sull’«Avanti!», rivendicando come «nel “perire dei tempi” di cui parla Rocco, la stessa ripetizione di forme di esistenza barbare e pagane, la ripetizione del rifiuto alla civiltà e alla presenza cristiana producono, poiché esse non avvengono nel vuoto ma nella storia, l’accrescersi della protesta, della energia liberatrice». Nello stesso articolo Panzieri faceva un passo in avanti, fino a rivalutare le correnti “autonomiste” del meridionalismo («da Colajanni a Salvemini a Dorso»), la cui eredità politica era stata raccolta in parte proprio dal PSI, soprattutto nelle regioni del sud, grazie alla confluenza di molti ex azionisti nel partito.

13. Ma chi più di tutti seppe sfruttare il “caso Scotellaro” per promuovere le scelte politiche del PSI fu Pietro Nenni, che difese sull’«Avanti!» il valore esemplare delle storie di vita di Contadini del Sud (sulle quali si erano attestate particolarmente le critiche comuniste), ma non mancò di leggerle in un’ottica attenta alle strategie del partito in termini di alleanze: “Il contadino Di Grazia è iscritto all’Azione Cattolica ma non gli sfugge che dopo la liberazione i «caporioni del fascio sono andati nella d.c.». L’istinto di classe lo guida verso i socialisti. «Ora noi che siamo rimasti dobbiamo fare accordi con i socialisti veri, non con i comunisti, che vogliono essere tutti eguali […] (Deve trattarsi di un elettore del giovane onorevole Colombo che al congresso democristiano di Napoli portò il grido di disperazione dei contadini del Sud; deve trattarsi di uno tra le centinaia di migliaia di elettori che da Fanfani attendono fatti e non parole, fatti dei quali l’accordo “con i socialisti veri” costituisce la premessa necessaria ed ineluttabile).
Si tratta di un esempio tipico del paradosso da cui abbiamo preso le mosse: Nenni si appropriava di un dibattito i cui temi sarebbero stati raccolti negli anni Sessanta da uno dei filoni più vivi del socialismo di sinistra (Bosio e l’Istituto Ernesto de Martino in particolare) per dare voce alla neonata politica del dialogo con i cattolici, che avrebbe condotto il PSI in una direzione che quello stesso socialismo di sinistra avrebbe rifiutato, trovandosi infine fuori da esso.

14. La seconda accezione di autonomia investe più direttamente il tema dei rapporti tra cultura e politica o, più precisamente, tra intellettuali e partito. Un tema che fu il leit motiv quasi ossessivo del dibattito politico-culturale del 1956, ma che nella prima metà degli anni Cinquanta fu patrimonio pressoché esclusivo di alcuni gruppi minoritari di intellettuali militanti all’interno o nell’orbita del PSI, ovvero di quei marxisti critici che mantennero viva, negli anni del frontismo, la polemica contro le interferenze della politica nel campo della cultura e coltivarono – quasi clandestinamente – interessi e relazioni intellettuali aperti alle correnti più innovative della cultura europea, allora ignorate o tenute in sospetto dalla cultura di partito (l’esistenzialismo, la Scuola di Francoforte, le nascenti scienze sociali, ecc.). Combattuti tra la volontà di dare voce alla propria critica e la necessità di non nuocere alle forze di sinistra negli anni più duri della guerra fredda, si riunirono in un primo tempo (tra il 1949 e il 1953) intorno al bollettino «Discussioni» (una piccolissima pubblicazione destinata a circolare tra pochi amici, quasi in forma di «lettere aperte») e, più tardi, dal 1955, nella rivista «Ragionamenti»: Roberto e Armanda Guiducci, Renato Solmi, Sergio Caprioglio, Luciano Amodio, Emanuele Tortoreto, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Gianni Scalia. Una posizione al tempo stesso originale e di maggior rilievo ebbe, all’interno di questo gruppo, Franco Fortini, marxista critico per antonomasia. Socialista dal 1944, avrebbe giustificato in più occasioni la stessa scelta di militare all’interno del PSI con la difficoltà di accettare la disciplina richiesta agli intellettuali all’interno del PCI. Fu però soprattutto dopo la sconfitta elettorale del Fronte che la sua critica alla politica culturale comunista (e socialista) si fece più radicale, con la denuncia della «via di vergogna» intrapresa dai partiti del movimento operaio italiano, pronti a replicare, in scala minima, «tutta la teratologia stalinista». Una posizione che lo espose a critiche e censure, che culminarono, nel 1951, in un duro scontro con il vice segretario del PSI Rodolfo Morandi e, nel 1954, addirittura in un provvedimento di deplorazione da parte della Federazione milanese per l’articolo Appunti su comunismo e occidente, con il quale aveva negato l’identità di comunismo e stalinismo e rivendicato agli intellettuali il compito di elaborare un progetto di «comunismo occidentale» autonomo e originale.

15. A partire da quello stesso 1954 i marxisti critici sembrarono trovare una sponda, all’interno del PSI, in Raniero Panzieri, che dal luglio 1955 avrebbe ricoperto la carica di Responsabile della Sezione cultura e Studi, mettendo mano a una radicale riorganizzazione del lavoro culturale del Partito. Un primo passo in questa direzione si era avuto nel settembre 1954, a Bologna, con il convegno Per la libertà della cultura, quando per la prima volta, in una manifestazione organizzata dal PSI, si era parlato di libertà della cultura non solo in termini di “lotta all’oscurantismo e al clericalismo” ma anche come rifiuto della sua partiticità, lanciando un primo segnale della volontà di rifondare il rapporto tra intellettuali e PSI su basi polemiche quando non apertamente concorrenziali rispetto all’alleato-avversario comunista. Il progetto di Panzieri si basava tuttavia su un’ambigua dinamica tra «autonomia» e «organizzazione», secondo la quale il partito avrebbe dovuto svolgere una funzione prevalentemente organizzativa e di coordinamento, fornendo gli strumenti necessari alla discussione (case editrici, riviste, istituti, convegni) senza influenzarne i contenuti. Parafrasando il discorso con cui Nenni chiuse l’assise di Bologna (e che a dispetto delle intenzioni dichiarate fu un vero e proprio concentrato di paternalismo) il PSI voleva infondere negli intellettuali fiducia nelle proprie possibilità, senza nessuna «speculazione» di propaganda o di guida politica diretta. Nonostante l’apparente consonanza con le richieste di autonomia avanzate da Fortini e da «Ragionamenti», l’obiettivo di questo appello erano non tanto i marxisti critici quanto una platea più vasta di intellettuali (per usare una formula allora in voga) «genericamente democratici». Questo non sfuggì a Fortini, che in una lunga lettera a Panzieri si mostrò «sconcertato» di fronte all’«appello ad una libera ricerca culturale [che] sembra proclamato in linea di principio ma diretto verso l’esterno e assume dei caratteri di liberismo difficilmente accettabili», quasi una riproposizione, in termini nuovi, del vecchio frontismo.

16. Le divergenze si fecero ancora più stridenti nel 1956, quando gli stravolgimenti delle vicende del comunismo internazionale e le loro ripercussioni sui rapporti interni tra i due partiti del movimento operaio italiano strapparono i marxisti critici alla loro marginalità e li posero al centro di un dibattito di cui erano stati precursori (basti ricordare come la celeberrima discussione sul marxismo in Italia, che occupò per settimane le pagine de «Il Contemporaneo», fu scatenata dalla stroncatura del pamphlet di Roberto Guiducci Socialismo e verità).

17. In questo clima di «insensato ottimismo» (Fortini, a cui si deve questa formula, pretese nei giorni della pubblicazione del Rapporto Kruscev che il provvedimento disciplinare del 1954 fosse ritirato, dal momento che la storia aveva finito per dargli ragione) si inserisce la pubblicazione, su «Ragionamenti», delle Proposte per l’organizzazione della cultura marxista, manifesto con cui i marxisti critici si candidavano a guidare quel processo di “rinascita della cultura marxista” che potevano finalmente pubblicamente invocare come necessario e urgente. Un processo che avrebbe dovuto a loro giudizio addirittura capovolgere il rapporto di gerarchia tra politica e cultura, affidando agli intellettuali la verifica delle scelte della politica.

18. I fatti d’Ungheria precipitarono gli eventi, accelerarono lo strappo del PSI dal PCI ed ebbero importanti ripercussioni tra gli intellettuali della sinistra italiana. Una buona parte di coloro che decisero di uscire dal PCI cominciarono a guardare con interesse al PSI e anche gli intellettuali «democratici» accolsero con entusiasmo lo strappo socialista. Proprio questo «darsi all’acquisto delle liquidazioni comuniste» fu una delle principali ragioni di frizione tra Panzieri e i marxisti critici, e in particolare Fortini, che si sentì scavalcato da quelli che giudicava antistalinisti dell’ultima ora (si pensi che cosa dovesse significare per lui l’adesione al PSI di Carlo Muscetta, che corso nel dibattito sul «Contemporaneo» lo aveva attaccato violentemente sul piano personale). A questo si aggiungeva, più ingombrante, la questione della funzione del partito, che Panzieri giudicava affrontata in maniera insoddisfacente dalle Proposte di «Ragionamenti» (che avevano vagheggiato la possibilità di un rapporto diretto tra intellettuali e masse e che i marxisti critici consideravano risolta da Panzieri ancora nei termini di «guida» e «direzione».

19. Proprio quando l’autonomia della cultura divenne una delle parole d’ordine del cosiddetto disgelo, l’apparente unità di quelle forze che per prime l’avevano rivendicata finì per sfaldarsi. I marxisti critici disertarono i tentativi panzieriani di discutere le prospettive della politica del PSI in chiave di salvaguardia della “politica unitaria” (a cominciare dal progetto di Istituto di Studi Socialisti da lui immaginato sul modello di quello fondato da Rodolfo Morandi a Milano nel 1946); nel 1957 «Ragionamenti» si sciolse in seguito alla spaccatura della redazione intorno al nodo della necessità di intervenire in politica in maniera più diretta; Guiducci, Momigliano e Pizzorno fondarono insieme a un gruppo di ex comunisti (Antonio Giolitti, Alberto Caracciolo, Carlo Ripa di Meana, Lucio Colletti) la rivista «Passato e Presente»; Fortini, profondamente offeso dalla scarsa attenzione dedicata dalla stampa socialista al suo Dieci inverni (con l’eccezione di una recensione critica di Luciano Della Mea, che lo fece infuriare) presentò nel dicembre 1957 le sue dimissioni dal PSI. “Ho tradotto – scriveva a Panzieri in quei giorni – una ventina di volumi, ne ho scritti cinque, ho cercato di capire tutto quel che potevo, di fare del mio meglio; e ho il classico pugno di mosche. Basta, non ho e non voglio avere la forza di battermi ancora […]. Oggi, per me, non c’è posto. Quando ci fosse, non mancherei di occuparlo. Patisco come un cane, puoi crederlo, ma non ho diritto di togliermi questa spina. Il Socialismo mi reggeva; oggi gli son caduto di mano”.
Un vero e proprio grido di dolore che testimonia la sofferenza per la perdita di identità che rappresentava ancora alla fine degli anni Cinquanta l’abbandono di un partito politico. Un sistema di valori che presto sarebbe entrato in crisi, grazie alla nascita di nuove forme di partecipazione politica, che avrebbero in qualche modo portato alle estreme conseguenze il tema dell’autonomia della cultura dalla politica dei partiti.

20. L’ultima declinazione di autonomia ha più direttamente a che fare con Raniero Panzieri e con la sua personale riflessione sulla fabbrica e sulla condizione operaia come contributo al dibattito interno al PSI dopo la svolta del ’56. Una riflessione che troverà i suoi esiti più fruttuosi nella stagione dei «Quaderni rossi», ma che affonda le radici negli ultimi anni della militanza socialista di Panzieri e favorisce dunque la comprensione di come il PSI, proprio nel momento in cui cominciava a intraprendere il percorso che l’avrebbe condotto al centrosinistra, ebbe la funzione di traghettare un buon numero di giovani verso un nuovo modo di fare politica.

21. Estromesso dalla Direzione nel corso del Congresso di Venezia (6-10 febbraio 1957), Panzieri riuscì a ottenere l’incarico di condirettore della rivista «Mondo operaio», dando inizio a un lavoro di elaborazione culturale e politica che è stato da molti giudicato il suo capolavoro, «una delle stagioni più belle ed entusiasmanti di autentico rinnovamento del socialismo italiano» (Mangano 1992, p. 115). Tra 1957 e 1958 Panzieri riuscì a fare della rivista ideologica del PSI un vero e proprio laboratorio di idee, nel quale le diverse posizioni interne (ed esterne) al partito si confrontarono intorno ai temi più scottanti del dibattito, per contribuire a sciogliere il nodo della futura politica del PSI. È questo, per esempio, il caso del dibattito sul «neocapitalismo», cartina tornasole della capacità di partiti e di sindacati di adeguare le proprie strategie alle mutate condizioni socio-economiche del Paese (dopo lo choc della sconfitta della CGIL alle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat del 1955).

22. Certamente «Mondo operaio» fu per Panzieri anche lo strumento con il quale elaborare e dare voce al proprio dissenso nei confronti delle scelte politiche della maggioranza (e dell’opposizione della sinistra di corrente), con la difesa di una politica unitaria di classe e la ricerca di una «terza via socialista» (alternativa tanto allo stalinismo quanto al riformismo). Questo impegno si esplicitò in due direzioni: una, verticale, che ricercava nel passato del movimento operaio i momenti in cui si era tentato un innesto tra rivoluzione e democrazia diretta (il soviettismo della rivoluzione d’Ottobre, il Lenin di Stato e Rivoluzione, il movimento torinese dei consigli di fabbrica, il Gramsci dell’«Ordine Nuovo», la rivoluzione dei consigli in Germania, lo spartachismo); un’altra, orizzontale, che guardava con attenzione agli esperimenti di democrazia diretta allora in atto in paesi socialisti come Polonia e Jugoslavia. La ricomposizione di queste riflessioni in proposta politica si concretizzò nella pubblicazione, nel febbraio 1958, delle Sette tesi sulla questione del controllo operaio, scritte da Panzieri insieme a Lucio Libertini. Presentate come contributo alla discussione sulla «via democratica e pacifica al socialismo» (declinata come «via della democrazia operaia» piuttosto che come «via parlamentare»), le Tesi ponevano la questione della «autonomia rivoluzionaria del proletariato», auspicando (in polemica con la “teoria dei due tempi”) la creazione di istituti di democrazia diretta «non già dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso stesso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere». Tali istituti sarebbero dovuti nascere «nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere, e rappresentare perciò l’uomo non solo come cittadino ma anche come produttore». Essi dunque sarebbero dovuti nascere in fabbrica e partire dall’esperienza concreta degli operai.

23. Non è possibile in questa sede indugiare sul dibattito scatenato dalle Tesi (che in verità lo stesso Panzieri giudicò deludente, a dispetto del suo desiderio di farne, come aveva scritto a Giovanni Pirelli, «il reagente immediato per la chiarificazione delle varie posizioni socialiste di fronte alla fase di cambiamento»): ciò che conta sottolineare, tuttavia, è come proprio il dibattito sul controllo avvicinò a Panzieri (e, per un brevissimo periodo, al PSI) alcuni giovani, ai quali le Tesi sembrarono uno dei pochi tentativi di immaginare nuovi strumenti per la politica del movimento operaio. È questo il caso di alcuni giovani comunisti dissidenti come Alberto Asor Rosa, Lucio Colletti, Mario Tronti, ma anche di quel gruppo di studenti torinesi che manifestò il desiderio di aderire al PSI indicando tra le ragioni di questa scelta «la lotta iniziata e portata avanti sugli organi di stampa del Partito per diffondere nella coscienza di tutti i lavoratori il problema del “controllo operaio». A questi vanno senz’altro aggiunti quei giovani che Panzieri conobbe in giro per l’Italia viaggiando per pruomovere il dibattito sul “controllo” e che coinvolse in un lavoro collettivo che avrebbe dovuto sfociare in una serie di inchieste di fabbrica (proprio sulle pagine di «Mondo operaio» e di quello straordinario esperimento che fu il suo «Supplemento scientifico-letterario» comparvero le prime riflessioni sulla necessità di rimettere la fabbrica al centro degli studi e delle analisi, nonché alcuni primi tentativi in questa direzione, come il lavoro di Aris Accornero sulla RIV o quello di Alasia e Tarizzo sulla Savigliano). Un progetto nato su stimolo di Maria Adelaide Salvaco e nel quale Panzieri si gettò con passione coinvolgendo gruppi di militanti in diverse città del nord Italia (tra i quali spiccano già i nomi di Gianni Alasia a Torino e di Dario e Liliana Lanzardo a La Spezia). Nel settembre 1958 – grazie alla collaborazione di Giovanni Carocci (autore della nota inchiesta sulla Fiat pubblicata da «Nuovi Argomenti») – i questionari erano pronti, ma il progetto falliva a causa delle difficoltà sorte nel PSI e della mancata collaborazione dei comunisti. Ciò che però è particolarmente interessante è come il primo tentativo di rimettere la fabbrica al centro dell’interesse della politica del movimento operaio con il metodo dell’inchiesta – che sarebbe stato in seguito patrimonio del gruppo dei «Quaderni rossi» – si consumi ancora una volta all’interno del PSI, seppure ormai ai suoi margini.
Nel 1959, con il trasferimento a Torino, si aprì per Panzieri una nuova fase politica, che – a dispetto della sua brevità – resta ancora oggi la più indagata dagli studiosi. I fatti di Piazza Statuto – che nel luglio 1962 colsero di sopresa partiti e sindacati – diedero di lì a poco un primo importante segnale di apertura di una nuova stagione di conflittualità e il dibattito sull’autonomia operaia fu raccolto e rielaborato in forme originali da una «nuova generazione di sovversivi». I primi governi di centrosinistra e la scissione del PSIUP (1964) avrebbero di lì a poco forzatamente chiuso una delle stagioni più intense del dibattito politico-culturale interno al Partito socialista. Bosio, Fortini, Panzieri e molti altri esponenti del socialismo di sinistra avrebbero scelto di non aderire alla nuova formazione politica. Il modello fino ad allora dominante nella relazione tra intellettuali e partito (e tra classe e partito, e tra classe e intellettuali) entrava definitivamente in crisi, aprendo le porte a nuovi scenari e nuove possibilità.

Dal portale di risorse per gli studi storici e sociali “Open editio”, cui rimando per annotazioni e bibliografia.

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