2.11.18

2005, i cento anni dell'Iww, il sindacato classista americano. Una lezione per i nostri tempi (Bruno Cartosio)

Sabato 25 giugno  2005 "alias", magazine del "manifesto", dedicò quasi metà delle sue pagine ad un anniversario importante, ma trascurato da quasi  tutti gli altri mezzi di comunicazione: i cento anni dell'IWW, Industrial Workers Of the World, il sindacato internazionalista e classista che con le sue organizzazioni e le sue lotte animò i primi decenni della scena sociale e politica degli USA. 
Riprendo qui l'articolo che funge da cornice e contiene una credibile prospettiva attualizzante, quello dello storico del movimento operaio Bruno Cartosio. Lo dedico ai compagni e agli amici impegnati in un congresso della Cgil che a me pare molto importante, e non solo per la scelta del successore di Camusso. (S.L.L.)
Cent’anni fa, alle dieci di mattina del 27 giugno 1905, il minatore William «Big Bill» Haywood apriva il «Congresso continentale della classe operaia» nella Brand’s Hall di Chicago: «Compagni lavoratori, apro i lavori di questo congresso consapevole della responsabilità che cade su di me e su ognuno dei delegati qui riuniti... Noi siamo qui per confederare i lavoratori di questo paese in un movimento di classe operaia il cui fine sarà l’emancipazione della classe operaia dai vincoli schiavistici del capitalismo».
Undici giorni dopo, la sera del 7 luglio, il congresso si chiudeva con i «tre entusiastici evviva» degli oltre duecento delegati che ratificavano così, per acclamazione, l’avvenuta nascita dell’Industrial Workers of the World. Quei delegati rappresentavano più di quaranta organizzazioni e circa 60.000 lavoratori, dai minatori delle Montagne rocciose ai tessili della costa orientale, dai metalmeccanici di Chicago e dei maggiori centri industriali ai birrai immigrati dall’Europa del nord. Non era poco per un’organizzazione nascente. In quel momento, la moderata American Federation of Labor - vecchia di vent’anni - poteva vantare quasi un milione e mezzo di iscritti.
Nella seduta finale, simbolicamente presieduta da Luella Twining, una delle poche donne delegate, Haywood sottolineò - suscitando ilarità per il linguaggio formale che adottava: quello del XV emendamento alla Costituzione, che nel 1870 dava a ogni cittadino il diritto di voto - che l’Iww «non riconosce né razza, né credo, né colori, né sesso, né precedenti condizioni di servitù»
Subito dopo, con l'altro registro linguisico, che gli era più congeniale, riportò tutti alla concretezza del progetto comune, ricordando che l’obiettivo non era di «migliorare la condizione unicamente dei lavoratori specializzati», ma di «scendere nei canali di scolo per arrivare alla massa dei lavoratori e per innalzarli a un livello decente di vita».
«Non mi interessa un fico secco - aggiunse - se gli specializzati si iscriveranno o no, ora. Quando avremo portato nella nostra organizzazione quelli che non sono organizzati e i lavoratori che non hanno qualifica, allora anche gli specializzati dovranno fare ricorso [all’Iww] per difendere se stessi» dagli attacchi padronali.
Più sotto riprenderò questo filo del discorso, perché proprio quest’inclusività organizzativa appare oggi uno dei tratti più rilevanti di quell’esperienza. Ma prima bisogna fare il punto. La storiografia recente ha di nuovo accantonato l’Iww, dopo la straordinaria ripresa d’interesse degli anni Sessanta e Settanta. A partire dagli anni Ottanta reaganiani, negli Stati Uniti si è tornati a parlare e scrivere sempre meno di lavoratori e di storia operaia.
L’antisindacalismo dominante nell’ideologia politica e intrinseco alle trasformazioni epocali della società e dell’economia hanno messo la sordina anche alla ricerca storica. La sindacalizzazione è crollata.
I tentativi delle organizzazioni di rivitalizzare un movimento che nel settore privato e nell’industria è sceso all’8 per cento di iscritti, hanno recuperato dai magazzini della storia i labor councils cittadini, cioè l’organizzazione su base territoriale; hanno aperto le organizzazioni ai lavoratori di immigrazione recente; hanno esteso agli altri movimenti sociali l’interlocuzione e la possibilità di fare alleanze, soprattutto sul piano locale.
È come se si fosse cercato di recuperare frammenti di storia: i labor councils dalle organizzazioni territoriali dei Knights of Labor ottocenteschi, dell’American Federation of Labor più antica e della stessa Iww; l’accoglimento nei ranghi degli immigrati dall’Iww; il ruolo politico-sociale del movimento sindacale dai Knights of Labor e dal Congress of Industrial Organizations dei passati anni Trenta.
Tutto questo finora non è bastato. Né basterà in futuro, se dal passato del movimento operaio statunitense e internazionale non verranno riprese, e rimodellate sulle nuove realtà, anche altre categorie, strategie, prospettive.
In particolare, ed è qui che torna l’Iww, il senso dell'antagonismo sociale e l’inclusione organizzativa di tutti lavoratori, occupati e no, precari e immigrati.
Torniamo a Haywood; anzitutto alla sua critica della elitaria gelosia di mestiere delle trade unions: «Il lavoratore specializzato ha organizzato un sindacato per sé, riconoscendo che nell’unione è la forza. E ha innalzato un muro intorno a quell’unione, che impedisce ad altri di entrare a farne parte... Ci sono sindacati in questo paese che chiedono a chi si iscrive una tassa d’iscrizione che arriva a 500 dollari. Come i soffiatori di vetro, per essere chiari; ma quanto tempo ci vorrebbe per uno che prende un dollaro, un dollaro e un quarto al giorno e deve pensare alla famiglia per mettere da parte abbastanza soldi per versare la quota d’ingresso in quel sindacato?».
Si tratta di un esclusivismo miope e senza futuro, perché l’evoluzione produttiva ha trasformato le mansioni degli stessi specializzati, togliendo loro potere sul terreno produttivo. Nella fabbrica d’oggi «non esistono più specializzati. Nei macelli non ci sono più macellai; c’è un’infilata di uomini la cui specializzazione sta solo nel fare la loro piccola parte e basta. La macchina è l’apprendista di ieri e l’operaio finito di oggi». E la ragione per cui «la macchina sta rapidamente prendendo il vostro posto e presto vi avrà rimpiazzati», è che, infine, «non esiste in questo paese un capitalista imprenditore o una corporation che, se fosse possibile, non farebbe funzionare l’intera sua fabbrica con le sole macchine, liberandosi di tutti gli esseri umani che ora sta impiegando».
Non esistevano dunque alternative alla lotta di classe e all’unione di tutti i lavoratori in una grande «organizzazione le cui porte siano aperte per far entrare ogni uomo, donna e, se necessario, ragazzo che lavori per un salario, sia con le braccia, sia con il cervello».
Tutti, con parole analoghe, espressero lo stesso concetto in quel congresso. Del resto, il preambolo alla Costituzione dell’Iww, approvato in quella stessa occasione, affermava perentoriamente che «la classe operaia e la classe padronale non hanno niente in comune. Non vi può essere pace finché la fame e il bisogno esistano per milioni di lavoratori e i pochi, che costituiscono la classe padronale, posseggano tutte le cose buone della vita».
Quella della lotta di classe era una scelta politica consapevole e deliberata, naturalmente. Da allora, gli storici discutono, da una parte, se in essa fossero più forti le sollecitazioni teoriche congeniale, riportò tutti alla concretezza del progetto comune, ricordando che l’obiettivo non era di «migliorare la condizione unicamente dei lavoratori specializzati», ma di «scendere nei canali di scolo per arrivare alla massa dei lavoratori e per innalzarli a un livello decente di vita».
«Non mi interessa un fico secco - aggiunse - se gli specializzati si iscriveranno o no, ora. Quando avremo portato nella nostra organizzazione quelli che non sono organizzati e i lavoratori che non hanno qualifica, allora anche gli specializzati dovranno fare ricorso [all’Iww] per difendere se stessi» dagli attacchi padronali.
Più sotto riprenderò questo filo del discorso, perché proprio quest’inclusività organizzativa appare oggi uno dei tratti più rilevanti di quell’esperienza. Ma prima bisogna fare il punto. La storiografia recente ha di nuovo accantonato l’Iww, dopo la straordinaria ripresa d’interesse degli anni Sessanta e Settanta. A partire dagli anni Ottanta reaganiani, negli Stati Uniti si è tornati a parlare e scrivere sempre meno di lavoratori e di storia operaia.
L’antisindacalismo dominante nell’ideologia politica e intrinseco alle trasformazioni epocali della società e dell’economia hanno messo la sordina anche alla ricerca storica. La sindacalizzazione è crollata.
I tentativi delle organizzazioni di rivitalizzare un movimento che nel settore privato e nell’industria è sceso all’8 per cento di iscritti, hanno recuperato dai magazzini della storia i labor councils cittadini, cioè l’organizzazione su base territoriale; hanno aperto le organizzazioni ai lavoratori di immigrazione recente; hanno esteso agli altri movimenti sociali l’interlocuzione e la possibilità di fare alleanze, soprattutto sul piano locale.
È come se si fosse cercato di recuperare frammenti di storia: i labor councils dalle organizzazioni territoriali dei Knights of Labor ottocenteschi, dell’American Federation of Labor più antica e della stessa Iww; l’accoglimento nei ranghi degli immigrati dall’Iww; il ruolo politico-sociale del movimento sindacale dai Knights of Labor e dal Congress of Industrial Organizations dei passati anni Trenta.
Tutto questo finora non è bastato. Né basterà in futuro, se dal passato del movimento operaio statunitense e internazionale non verranno riprese, e rimodellate sulle nuove realtà, anche altre categorie, strategie, prospettive.
In particolare, ed è qui che torna l’Iww, il senso dell'antagonismo sociale e l’inclusione organizzativa di tutti lavoratori, occupati e no, precari e immigrati.
Torniamo a Haywood; anzitutto alla sua critica della elitaria gelosia di mestiere delle trade unions: «Il lavoratore specializzato ha organizzato un sindacato per sé, riconoscendo che nell’unione è la forza. E ha innalzato un muro intorno a quell’unione, che impedisce ad altri di entrare a farne parte...Ci sono sindacati in questo paese che chiedono a chi si iscrive una tassa d’iscrizione che arriva a 500 dollari. Come i soffiatori di vetro, per essere chiari; ma quanto tempo ci vorrebbe per uno che prende un dollaro, un dollaro e un quarto al giorno e deve pensare alla famiglia per mettere da parte abbastanza soldi per versare la quota d’ingresso in quel sindacato?».
Si tratta di un esclusivismo miope e senza futuro, perché l’evoluzione produttiva ha trasformato le mansioni degli stessi specializzati, togliendo loro potere sul terreno produttivo. Nella fabbrica d’oggi «non esistono più specializzati. Nei macelli non ci sono più macellai; c’è un’infilata di uomini la cui specializzazione sta solo nel fare la loro piccola parte e basta. La macchina è l’apprendista di ieri e l’operaio finito di oggi». E la ragione per cui «la macchina sta rapidamente prendendo il vostro posto e presto vi avrà rimpiazzati», è che, infine, «non esiste in questo paese un capitalista imprenditore o una corporation che, se fosse possibile, non farebbe funzionare l’intera sua fabbrica con le sole macchine, liberandosi di tutti gli esseri umani che ora sta impiegando».
Non esistevano dunque alternative alla lotta di classe e all’unione di tutti i lavoratori in una grande «organizzazione le cui porte siano aperte per far entrare ogni uomo, donna e, se necessario, ragazzo che lavori per un salario, sia con le braccia, sia con il cervello».
Tutti, con parole analoghe, espressero lo stesso concetto in quel congresso. Del resto, il preambolo alla Costituzione dell’Iww, approvato in quella stessa occasione, affermava perentoriamente che «la classe operaia e la classe padronale non hanno niente in comune. Non vi può essere pace finché la fame e il bisogno esistano per milioni di lavoratori e i pochi, che costituiscono la classe padronale, posseggano tutte le cose buone della vita».
Quella della lotta di classe era una scelta politica consapevole e deliberata, naturalmente. Da allora, gli storici discutono, da una parte, se in essa fossero più forti le sollecitazioni teoriche provenienti dalle componenti anarchiche oppure socialiste, socialiste rivoluzionarie oppure anarcosindacaliste e, dall’altra parte, se fossero decisive le passate esperienze politico-sindacali «americane» oppure quelle «internazionaliste».
Non sono questioni campate per aria: tra il 1905 e la prima guerra mondiale esse furono a lungo e ripetutamente dibattute in tutta la sinistra statunitense. Nella stessa Iww le correnti o fazioni che si richiamavano all’uno o all’altro modello teorico e organizzativo si scontrarono vigorosamente, quasi sempre portando nella vita interna gli echi e gli esempi di quanto altri rivoluzionari stavano facendo in Europa e altrove. Per quanto importanti siano dal punto di vista storiografico e filologico quelle questioni, mi sembra che oggi non meritino il proscenio.
È l’altro aspetto, invece, che mi sembra valga la pena di richiamare e, in una certa misura, attualizzare, avendo in mente i dibattiti intorno alle finalità, alla natura e all’azione del sindacato nella trasformazione sociale e produttiva attuale.
Il punto di vista sulla realtà espresso dall’Iww non era quello degli specializzati, skilled, che a torto o a ragione ritenevano di avere ancora un certo potere contrattuale e che godevano di alti salari, nonostante la trasformazione produttiva (il taylorismo stava ormai penetrando ovunque e, nel giro di un decennio, avrebbe fatto la sua comparsa la fabbrica fordista). L’angolo di visuale aveva il suo vertice nella grande massa dei dequalificati, unskilled, senza mestiere e senza potere. Nel guardare alla realtà da quella posizione gli wobblies rivelavano contemporaneamente la giustezza della loro analisi e la generosità dei loro intenti.
Nei vent’anni precedenti, la composizione della classe operaia negli Stati Uniti era cambiata in modo radicale. La popolazione delle grandi città era composta per oltre un terzo di immigrati. A seconda dei luoghi, dai tre quarti al novanta per cento dei lavoratori manuali era composto di immigrati e dei loro figli (e in piccola parte di afroamericani), la stragrande maggioranza dei quali era entrata nel mondo industriale e produttivo da unskilled.
All’inizio del secolo, quello era il presente e il futuro della classe operaia. Nessun progetto di trasformazione radicale dei rapporti di produzione e della società sarebbe stato neppure pensabile senza il coinvolgimento di questa massa straordinaria di persone.
L’avevano già capito i Knights of Labor, quando il cambiamento era agli inizi, ed erano arrivati a oltre 700.000 iscritti, prima di essere spazzati via dalla repressione seguita ai fatti del maggio 1886. Lo sapevano anche i dirigenti dell’American Federation of Labor, che però nell’ultimo decennio dell’ottocento scelsero la via dell’esclusivismo di mestiere, dopo essersi liberati dei socialisti al loro interno.
Ora l’Iww intendeva coinvolgere gli immigrati unskilled nel suo progetto di società futura, in cui i lavoratori «prendano e si tengano quello che producono col loro lavoro». Per questo i suoi «agitatori» parlavano e pubblicavano giornali e volantini in tutte le lingue necessarie, correvano da un posto all’altro, erano in prima fila nell’organizzare e condurre le lotte. La loro organizzazione fu la meno gerarchica possibile. Facevano propria la precarietà dei lavoratori cui si rivolgevano o da cui erano chiamati; vivevano allo stesso loro modo.
È impossibile dire che cosa sarebbe successo di questa idea di democrazia industriale radicale, senza la guerra e la repressione brutale che colpì loro e le sinistre tra il 1917 e il ’21.1 dequalificati di allora erano come i precari d’oggi. Erano tanti, senza diritti e ricattabili, sia socialmente, sia nei luoghi di lavoro. Le loro occupazioni erano instabili, poco retribuite, senza protezioni.
L'Iww rifiutava i contratti -che peraltro pochi imprenditori concedevano - perché la maggioranza dei suoi membri apparteneva alle fasce operaie che non avevano mai potuto trattare con i padroni. «Il padrone non ti guarda mai in faccia, non ti guarda mai negli occhi. Non gliene importa niente dei tuoi sentimenti, né della tua situazione, delle tue angosce, dei tuoi dispiaceri...» aveva detto Haywood.
L’Iww aveva capito quello che Henry Ford avrebbe capito quasi dieci anni dopo: che i precari, in genere giocati gli uni contro gli altri nella competizione per un posto di lavoro, potevano essere un’arma contro il capitale. Ford cercò di «comprarli», loro cercarono di organizzarli. Riuscirono entrambi nel loro intento. Ford introducendo d’autorità, nel 1914, la giornata di otto ore e un compenso giornaliero di cinque dollari. Era cosa soltanto per pochi e sottoposta a condizioni e i cinque dollari erano salario solo per una parte (per il resto redistribuzione dei profitti), ma grazie all’enorme valore simbolico della riduzione d’orario con aumento di salario ridusse l’avvicendamento degli unskilled. Quindi, con le sue squadracce parafasciste tenne l’Iww e tutti i sindacati fuori dalle sue fabbriche.
Anche gli wobblies riuscirono nel loro intento, però solo localmente e in modi rapsodici, in lotte entusiasmanti ma anche nei limiti imposti dalla fatica di Sisifo di tenere collegata, organizzata, una materia viva in perenne movimento, instabile e, in una certa misura, inaffidabile. Poi, non gli fu lasciato il tempo. Tuttavia, l’Iww aveva guardato lontano e aveva visto giusto: senza la massa dei precari e senza lotta di classe i movimenti operai non possono che spegnersi.

alias il manifesto, 25 giugno 2005

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