13.11.18

Avventure archeologiche degli anni Ottanta. Il ragazzo di Mozia (Cristina Mariotti)



Marsala 
«Era l’ultimo giorno della nostra campagna di scavo, un piovoso pomeriggio autunnale di tre anni fa. Venne fuori all’improvviso, abbagliante nella bianchezza del suo marmo: dapprima il ginocchio, ben modellato sotto la tunica sottile, poi le cosce, quasi femminili. Gli scavatori facevano scommesse sul suo sesso. Quando rimuovemmo la terra più su, la veste pieghettata della statua lasciò trasparire netti attributi virili ». Così Gabriella Calascibetta, giovane archeologa siciliana in missione nell’isola di Mozia (e con lei le colleghe Francesca Spatafora, Marisa Fama, Adriana Fresinaj racconta della splendida scoperta che le toccò per caso nel quadratino di scavo affidato alla sua supervisione: una statua di marmo alta un metro e novanta, scolpita da un raffinato artista greco alla metà del quinto secolo avanti Cristo, lo stesso periodo nel quale venne fuso il primo dei due bronzi di Riace, il più bello.
Il "ragazzo in tunica” di Mozia è altrettanto bello. Quando verrà esposto — per ora è sottochiave in un magazzino laboratorio — si prevede che faranno la fila per vederlo. Appoggiato tutto su una gamba, il busto in lieve torsione, una mano ancorata alla vita, mollemente, esprime un’elegante, altera sicurezza; la tunica, fine come una garza, è sostenuta da una fascia annodata alla sommità del petto, di fattura elaborata; un braccio manca completamente, ma il sapiente rilievo dei muscoli della spalla — tutta la statua rivela una cura del dettaglio anatomico quasi michelangiolesca — ha fatto ritenere che dovesse essere proteso in avanti, nell’esibizione di un segno del comando, per esempio lo scettro del sufeta, una specie di magistrato che nella società greca aveva il potere politico e quello religioso. Altri ritengono invece che il braccio dovesse spingersi verso l’alto, piegato ad angolo acuto, a cingere la testa di una corona d’alloro, l'emblema caratteristico di un auriga vittorioso. Auriga o sufeta, il giovane in tunica di Mozia (già Ennio, poeta romano, cantava nel secondo secolo la "tunicata juventus" delle genti puniche) piacerà soprattutto per l’impercettibile ambiguità che emana dalla sua figura: lo scultore era sì un greco, ma venuto a contatto e fortemente influenzato da culture orientaleggianti. Di questa stupenda opera per tre anni si è saputo solo all’interno del mondo accademico. La notizia è sfuggita di mano, quasi accidentalmente, agli archeologi che ora fronteggiano con imbarazzo gli effetti della pubblicità. Ammette Vincenzo Tusa, soprintendente della Sicilia occidentale, docente di antichità puniche a Palermo: « Ci piace coltivare la modestia, operare con discrezione ».
Prima della comunicazione al pubblico, il team di Mozia voleva essere sicuro della identità storico-artistica del reperto. Dice il ricercatore Gioacchino Falsone che ha diretto gli ultimi scavi, condotti dall’università di Palermo in collaborazione con la Soprintendenza: «Qualcuno ha sottolineato con sorpresa il fatto che la statua, una delle più preziose testimonianze della scultura greca, sia venuta alla luce giusto a Mozia, il più importante centro punico della Sicilia, il più fedele alleato dei cartaginesi e geograficamente il più prossimo alla città africana, distrutto dai greci nel 397 avanti Cristo. Si è parlato persino di un "giallo” archeologico. E invece non c'è nessun mistero. La Magna Grecia, è vero, non disponeva di marmo locale, e in Sicilia si scolpiva soltanto in pietra, ma la statua potrebbe essere approdata a Mozia in diverse circostanze: per esempio, come preda bellica, razziata dai punici in una delle colonie greche vicine, magari Agrigento. Oppure, visto che i rapporti fra le due culture non furono solo di guerra, il giovane in marmo potrebbe essere stato scolpito da un artista greco per un committente punico; e perché non immaginare che lo scultore abitasse addirittura a Mozia? Quando Dionigi di Siracusa conquistò e distrusse l’isola, vi trovò moltissimi greci che fece crocifìggere come traditori».
Un piccolo giallo però esiste davvero. La statua è stata trovata in una fossa ricolma di materiali di sgombero, in un’area usata dai punici come discarica. «In effetti era adagiata sotto una coltre di detriti, come se l’intenzione fosse stata quella di seppellirvela », ipotizza Falsone. Forse per salvarla dalla distruzione, nell'imminenza di un attacco da parte greca? E se è così, perché si pensò a proteggere solo questa statua? Oppure, nello stesso posto, ancora sotto terra, ce ne sono delle altre? «L’isola di Mozia», spiega il professor Tusa, «è ancora tutta da scoprire, diciamo che finora gli scavi ne hanno fatto riemergere appena il dieci per cento. Ci aspettiamo moltissimo dal resto, anche perché, a differenza di altri siti punici, riedificati in epoche successive più volte, Mozia è ancora quella del 397, l’anno della sua distruzione». Aggiunge Antonia Ciasca, docente di antichità puniche a Roma, che ha preso parte a nove campagne di scavo nell'isola: «A Cartagine, prima di arrivare al reperto punico bisogna attraversare diversi metri di strutture romane e bizantine, e fare i conti con gli esperti di queste discipline. Mozia invece è la Pompei della storia punica».
Forse è per questa sua integrità che ha attirato l’interesse di tanti studiosi. Da quando, alla fine dell’Ottocento, si ebbe la certezza che l'isola di San Pantaleo, oltre lo ”stagnone”, il braccio di mare chiuso come una laguna che la divide da Marsala, era sicuramente l'antica Mozia, si sono alternati agli scavi archeologici nomi illustri. Il più noto fu Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia e di Micene. Vi scavò solo per quattro giorni, poi ripartì deluso annotando nel suo diario che gli scavatori assoldati tra le diciannove famiglie di contadini dell'isola, tutti imparentati tra di loro, «sono certamente tra i peggiori operai che io abbia mai avuto». Continuò gli scavi, stavolta con evidenti successi, un archeologo dilettante, il capitano d’industria anglo-siciliano Joseph Whitaker, discendente di una famiglia impiantatasi tra Palermo e Marsala, dove con gli Ingham creò il famoso "baglio per la produzione di un vino assai simile al porto. Joseph, Peppmo per gli amici, era anche un uomo di scienza, si interessava di botanica e di ornitologia. Mozia fu la sua passione. Riuscì a comprare l'isola, con l’aiuto dell'amico garibaldino Giuseppe Lipari Cascio, appassionato di archeologia pure lui, e cominciò subito gli scavi. Nel 1921 pubblicò i i risultati in un libro al quale da allora hanno attinto in molti. A Mozia creò un museo che ancora resta l’unico.
Oggi l’isola appartiene alla Fondazione Whitaker voluta dagli eredi dell’ex proprietario. Accanto a politici e studiosi siede in consiglio d amministrazione anche un discendente d quel colonnello Lipari, fedele collaboratore del vecchio Whitaker. Nell'isola — tutt’ora un oasi i ecologica fitta di banani e di palme, di gelsomini e di alberi marmi, di agavi e di gerani selvatici — vivono solo tre famiglie delle diciannove registrate da Schliemann. Gli uomini non fanno più gli scavatori. Hanno il ruolo di guardiano-bidello. E nel tempo libero coltivano la loro vigna, che dà un vino squisito. Dice
don Vincenzo, che si occupa anche di traghettare i visitatori con la sua barca: «Da quando si è saputo della statua, ne sono venuti a centinaia. Per noi la pace è finita ». Alla Fondazione intanto si discute di un nuovo museo — forse sorgerà su palafitte, al centro dello "stagnone – e di una nuova imponente campagna di scavi.

L'ESPRESSO - 9 MAGGIO 1982

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