13.11.18

1911. Il primo film con gli operai della Fiat (Oddone Camerana)


Restaurata, ripulita, tirata a lucido come una gemma centenaria dimenticata nel fondo di un cassetto della storia, torna sugli schermi la prima testimonianza cinematografica sulla Fiat e una delle prime che presentano un’officina meccanica italiana. Dai dati a disposizione sul filmato Le officine della Fiat, titolo del documentario tornato oggi alla luce, non risultano le ragioni per cui sia stato prodotto da Luca Comerio. Ma è probabile che l’occasione sia stata la grande Esposizione internazionale del 1911 al parco torinese del Valentino, nella ricorrenza del primo mezzo secolo dell’unità d’Italia e dedicata alle industrie e al lavoro, ricorrenza che, come scrive Valerio Castronovo in Un secolo di storia italiana «non aveva solo consacrato il ruolo assunto dalla capitale subalpina nel campo della tecnica e della produzione. Quella manifestazione a cui era accorso un gran numero di visitatori anche dall’estero aveva affrancato la città da una patina di provincialismo e l'aveva accreditata come l’avamposto di una nuova Italia».
Siamo a Torino in corso Dante e come detto nel 1911. Datazione questa ricavata da un fotogramma del filmato in cui compare un uomo che tiene tra le mani una copia de “La Stampa” dalla cui prima pagina si è potuto risalire alla data di pubblicazione del quotidiano torinese. È l’anno della guerra di Libia per la quale la Fiat ottenne considerevoli commesse di autocarri militari. Anno in cui il cavaliere Giovanni Agnelli, non ancora del tutto sciolto da guai giudiziari, era tornato negli Usa dopo esserci stato la prima volta nel 1906, per studiare il successo della Ford model T, la prima utilitaria e le tecniche con cui questa veniva prodotta. Intanto la città di Torino, registrando 28 mila maestranze di cui tremila alla Fiat, 225 operai ogni mille abitanti, segnava un aumento della popolazione di diecimila unità all'anno e un numero di laureati al Politecnico che siperava quello dei laureati in Giurisprudenza. Contemporaneamente la Fiat aveva raggiunto le 2600 unità prodotte in un anno, la metà di quelle fabbricate in Italia e aveva aperto sedi commerciali in Germania, Russia, Austria, Ungheria, Polonia, Francia, Regno Unito e New York. In segreto i suoi progettisti stavano studiando e progettando la prima utilitaria italiana, la Tipo Zero.
È su questo terreno, dunque, che bisogna scendere per apprezzare il breve documentario di cui si parla. Undici minuti di girato suddivisi in sette capitoli preceduti da altrettanti cartelli tematici: operai al lavoro, montaggio cambi di velocità, montaggio motori, prova motori, montaggio chassis, prova vetture, mezzogiorno. Ci si è chiesti se il filmato racchiudesse un’intenzione propagandistica. A giudicare dalle immagini non si direbbe. Il marchio di fabbrica non compare, infatti, che in modo obbligato e solo sui radiatori delle vetture in fase di montaggio. Se qualcosa del non detto prevale, questo riguarda invece l'intenzione descrittiva e un sommesso orgoglio manifatturiero.
All’esterno delle officine poche auto, strade deserte, silenzio intuibile e non per l'evidente mancanza del sonoro, ima carrozzella, un passeggero e un cavallo, un tram aperto, un'edicola con pochi giornali. Tranquillità e misura. Identica atmosfera si respira all'interno dell'officina, ancorché i locali siano popolati di operai e tecnici al lavoro attorno ai pezzi, alle macchine, agli strumenti di lavoro, ai cassoni ingombri di materiali. Qualche ragazzo, nessuna donna, l’ambiente illuminato dalla luce artificiale diffusa da una selva di eleganti globi opacizzati che scendono dal soffitto nobilitandolo della loro presenza calda e cordiale. Gli operai indossano casacche di tessuto grezzo, molti hanno i baffi, non sembrano disturbati dal fatto di essere ripresi, lavorano, tirano focosamente di lima, uno in particolare desta attenzione per via di un fazzoletto legato al mento, segno di un probabile ma sopportato mal di denti. È siamo alla conclusione introdotta dal cartello: Mezzogiorno! annuncio che apre la sequenza dell’uscita per la pausa pranzo, pagina per altro antologica di per sé che segna l'inizio delle due ore di interruzione dal lavoro degli operai e dei funzionari, molti dei quali tornavano alle loro abitazioni. Tutti portano un copricapo nonostante la stagione mite. Così a giudicare dall’abbigliamento leggero. Berretti, lobbie, cappelli a larga tesa, panama, ma nessun basco.Qualcuno si scopre in segno di saluto rivolto a chi dietro la cinepresa sta riprendendo quella circostanza felice.
Si può dire che questo dell'uscita dalla fabbrica sia il momento in cui la fabbrica non c'è. Ma ciò non vuol dire che non si sente. Vista cento anni dopo, la ripresa in questione non nasconde, infatti, una riflessione inevitabile sulla città e il suo destino di essere «città pilota». Un destino che si paga col sentirsi il terreno di un'alternanza di successi e insuccessi, di aver dovuto rinunciare per tanti anni di essere città dei piaceri, come nelle parole di Vittorio Messori, città del cioccolato e della birra, sede della scienza triste di Cesare Lombroso, città fatalmente predilettta da Nietzsche, sede del più grande ricovero del mondo, una città “disturbata” dal suo essere stata capitale, città tornata ad essere oggi luogo di cultura non senza cedere al rischio del farsi turistico. Certo che in cento anni di strada e di giravolte Torino ne ha fatte e chissà quante ne farà ancora.

“La Stampa”, 6 luglio 2011

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