4.11.18

Da Alberto Rabagliati a Gorni Kramer. Swing all'italiana, il ritmo sospeso (Marco Ranaldi)

Pippo Barzizza, Alberto Rabagliati, Tito Petralia

Italia, anni Trenta: fra Chitarra alpina e Giovinezza, fra le onde radio della giovanissima Eiar s’iniziano a sentire suoni diversi, più sincopati; l’America di Glenn Miller e di Duke Ellington sbarca molto prima che le truppe Usa arrivino ad Anzio: questo però è uno sbarco pacifico, quello dello swing. Il movimento ondulante che è parente stretto del rock’n’roll, arriva, come narrano le vicende avventurose dei musicisti italiani di quel periodo, tramite i padelloni, ossia i V disc. Grazie ai supporti in vinile (anzi acetato) del popolo musicale degli Usa e a un forte mercato che non tiene conto solo dell’opera lirica italiana; i fortunati che riuscivano ad ascoltare questi dischi, potevano innamorarsi di un tipo di musica molto diversa da quella che si sentiva in Italia e che il regime imponeva d’ascoltare. La storia è lunga a questo punto, poiché il regime non capiva molto di musica, tant’è che lo stesso Mussolini (che possiamo vedere in alcune foto imbracciare un violino) era più che altro un dilettante delle sette note e non aveva competenze specifiche, così come la maggior parte dei suoi gerarchi e del gruppo degli intellettuali di cui s’attorniava nella corte romana. Basti solo pensare che i compositori fascisti (che aderirono al partito e che furono attivisti) si ancorarono a Pietro Mascagni; già, l'autore di Cavalleria rusticana che ha sempre malamente condiviso i palcoscenici italiani con la bravura e la signorilità di Giacomo Puccini, compositore di gran lunga superiore, aveva la competenza di chi usciva dai conservatori dell’epoca e quindi proponeva una cultura classica della musica, figuriamoci quindi cosa potesse mai capire di jazz o di swing. Per uno melodico come lui potevano andare bene le canzoni del collega Ruccione.
Mario Ruccione è stato proprio il simbolo del pressappochismo fascista verso la musica; infatti fu lui l’autore di Faccetta nera (in realtà plagio della sigla che Gustavo Cacini, un attore romano sullo stile di Fregoli e Petrolini, aveva composto per i suoi show), ma anche della fiera del kitsch melodico, come Bianco Padre, Chitarratella, Vecchia Roma, Popolanella, Buongiorno tristezza. Silenziosamente però, s’insinua il lavoro di Pippo Barzizza, genovese classe 1902, anch’egli con solidi studi classici alle spalle. La sua prima creatura fu l’orchestra Blue Star che riuscì a ritagliarsi uno spazio molto importante nei locali da ballo di Genova. Infatti all’epoca, qualsiasi musica che non fosse classica, doveva servire per far ballare. Le città dove si ballava con grande ardore erano, oltre Genova, Torino, Milano, Napoli e Roma, ma un po’ dappertutto non si disdegnava di passare il tempo mangiando e ballando, dando vita così a quei circoli che saranno fondamentali per diffondere la rete «popolare» di Mussolini.
La grande passione per il ballo degli italiani era pari alla passione per la canzone che traeva spesso origini dalle romanze di Francesco Paolo Tosti. In questo ambito il lavoro di Barzizza fu molto importante, poiché quando nel 1936 entrò a lavorare come impiegato negli studi dell'Eiar, si trovò di fronte alla cultura del motivo popolare, quindi dovette partire dalla base ritmiche per far entrare nelle orecchie degli italiani la musica Usa; rimpolpò la sezione degli ottoni e usò gli archi con figurazioni sincopate o semplicemente con note lunghe a mo’ di pedale armonico, mentre la batteria e le percussioni avevano il ruolo più importante nel definire l’andamento sincopato, spesso sostenute dal pianoforte. Di fronte a questo nuovo modo di suonare, non pochi musicisti ebbero difficoltà, soprattutto quelli che provenivano dal mondo della canzone classica; per non parlare dei cantanti, alcuni dei quali si guardarono bene dall’aderire al nuovo linguaggio. Ovviamente lo swing imperversò nelle sale da ballo e spesso sostituì i valzer, le mazurche, i tanghi e anche i fox-trot. Con Barzizza si schierarono idealmente e professionalmente Alberto Rabagliati, Ernesto Bonino, Oscar Carboni, Silvana Fioresi, e con la creazione in radio dell’orchestra Cetra la musica cambia direzione.
Poi negli anni Trenta accadono eventi molto importanti. Nel 1935 Carlo Prato scova, in un locale di Torino, un trio di tre giovani olandesi oriunde italiane: Alexandria, Judith e Chatarina Leschan; Prato le prepara vocalmente mentre Barzizza ne intuisce le qualità e decide di affidargli alcune di quelle canzoni che poi diverranno i successi delle «italiani
Gorni Kramer
Lescano. E partono quindi nell’etere C’è un’orchestra sincopata, Ciribiribin, La gelosia non è più di moda, Le tristezze di san Luigi e l’arcinota Tulipan. Ma è grazie a un giovane jazzista, innamorato di Louis Armstrong e di Duke Ellington, che le Lescano «sfondano» assieme a Silvana Fioresi con Pippo non lo sa che tanto fece arrabbiare il vice duce Starace; ma Gorni Kramer, che ne fu l’autore, non fece una piega e con la sua fisarmonica iniziò a swingare senza sosta. A dare manforte a questa sorta di Carboneria della musica, ci pensò Louis Armstrong che arrivò proprio a Torino nell’anno delle Lescano: il ghiaccio era rotto. Dal canto suo il regime si guardò bene dal disturbare il successo dello swing, perché Romano Mussolini fu colpito dalla passione per il jazz e, da modesto pianista, «impose» al padre quel linguaggio che - come Topolino - finì per piacere anche al duce.
Concludiamo sottolineando che Pippo Barzizza rimane ancora oggi il maestro indiscusso di un’epoca e di un sound che nulla aveva da invidiare ai cugini statunitensi: d’altronde quello che riuscì a creare fu proprio una sonorità ricercata, dove si amalgamavano le espressioni degli strumenti con le voci fino ad arrivare a quella che sarà l’orchestra detta ritmico-sinfonica, proprio dall’intuizione di Barzizza.
L’era dello swing non è mai finita ma si può collocare sicuramente con la fine del secondo conflitto mondiale e con l’avvento della canzone melodica e la nascita di Sanremo (alla quale collaborò attivamente lo stesso Angelini). Il lavoro di Barzizza, anche se con strade e intenti diversi fu portato avanti da tanti jazzisti, primo fra tutti Kramer e poi Lelio Luttazzi fino all’ultima generazione che è quella di Gianni Ferrio e di Franco Cerri, ideali innovatori di un linguaggio che non smetterà mai di far battere il piede.

“alias – il manifesto”, 12 febbraio 2011

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