Allievo di Carlo Morandi,
da cui ereditò il gusto della scrittura elegante e dell'ampiezza di
orizzonti, Giuliano Procacci è stato uno degli storici italiani più
aperti alle curiosità e alle innovazioni. La breve esperienza di
studio in Francia dopo la laurea favorì certo la sua sensibilità
verso il tema delle permanenze e delle continuità, ma il suo
rapporto con la scuola delle Annales fu di tipo «dialettico», come
si usava dire nel linguaggio d'epoca, nutrito di fascinazione e
diffidenza, come accadeva a tutti i giovani storici marxisti del
dopoguerra.
Perché Procacci fu
storico senza dubbio «impegnato», se pure con ironia e distacco
sorridente: tra i suoi primi scritti troviamo tanto studi sulla
Francia in età moderna, quanto sui dibattiti della socialdemocrazia
tedesca nell'età della Seconda Internazionale, ma anche inchieste
sugli operai della Galileo a Firenze. Del resto l'intreccio tra
storia e politica, non privo di innegabili rischi, per questa
generazione non rappresentò accecamento ideologico, ma stimolo a
studiare e comprendere la realtà che si voleva contribuire a mutare.
Giuliano Procacci |
Gli studi su Machiavelli
e il machiavellismo, la fortuna e la leggenda nera di questo grande
pensatore, furono il primo contributo determinante, un autentico
punto fermo storiografico (un interesse che di tanto in tanto si
riaccendeva: Un Machiavelli per la Delta Force si intitola uno dei
suoi ultimi scritti, a proposito della versione neocon di Machiavelli
proposta al pubblico americano da Michael Arthur Ledeen). I suoi
studi degli anni Sessanta sul movimento operaio si condensarono alla
fine del decennio nel volume d'insieme Lotta di classe in Italia agli
inizi del secolo XX, memorabile per l'equilibrio della trattazione di
spontaneità e organizzazione (termini fin troppo dibattuti nella
polemica del tempo) e per la delineazione di geografia e struttura
del movimento operaio (e contadino).
Arrivato a questo punto
della sua carriera di studioso, mutò completamente oggetto del suo
interesse, inaugurando una serie di studi sull'Unione Sovietica, che
colmavano un vuoto avvertibile e vistoso nella storiografia
comunista. Più che i suoi contributi, pure rilevanti, va qui
ricordata la fondazione della prima scuola storiografica italiana che
prese ad approfondire e dibattere in forma scientifica questo tema.
Ormai avviato questo
lavoro di scuola, prese ad occuparsi del problema della pace e della
guerra negli anni Trenta, con studi di grande acume critico e
filologico che forse non ebbero il rilievo che avrebbero meritato: la
questione della «pace possibile», dei tentativi dei movimenti
internazionali per arginare la guerra (forse) evitabile, del
fallimento doloroso di questi sforzi.
La sua opera più nota e
fortunata rimane e probabilmente resterà la Storia degli italiani,
che smentisce il luogo comune della incapacità degli storici
accademici di farsi leggere e comprendere. Scritta per un pubblico
straniero, muoveva dalla consapevolezza che per gli osservatori
esterni l'Italia è spesso «il paese di Pulcinella». «Ma
Pulcinella - aggiungeva Procacci - non è, come sappiamo, soltanto un
guitto, ma un personaggio, una "maschera" di grande
spessore e verità umana, che... ha molto vissuto, molto visto e
molto sofferto ... Pulcinella non muore mai, perché egli sa che
tutto può accadere nella storia. Anche che la sua antica fame venga
un giorno saziata». Il libro si apriva con una citazione da La casa
in collina di Cesare Pavese (Professore, ... Voi amate l'Italia? ...
- No, ... non l'Italia. Gli italiani), e si chiudeva con la
descrizione dei funerali di Togliatti, paragonato a Cavour per
lucidità politica e fermezza, a cui «toccava di morire in un'Italia
gaudente e volgare».
Il libro era datato
aprile 1968, la fame antica sarebbe stata ben presto saziata con
voracità disordinata e bulimica, e l'autore non poteva immaginare da
quale Italia gli sarebbe toccato prendere congedo.
il manifesto 5 ottobre
2008
Nessun commento:
Posta un commento