Spesso gli studiosi
somigliano a Cristoforo Colombo: partono con un programma di ricerca
e arrivano dove non si aspettavano
Una catena di
astrazioni potenzialmente infinita collega i pastori antichi che
contavano le pecore agli apparati di calcolo che oggi servono alla
dimostrazione di congetture sofisticate.
Yuri Manin |
«La biologia studia gli
organismi viventi; l'astronomia i corpi celesti; la chimica la
varietà della materia e i modi delle sue trasformazioni... ma che
cosa studia la matematica?», chiede il grande matematico russo Yuri
Manin, ora alla Northwestern University a Evanston nell'Illinois. La
domanda sembra assillare non pochi studenti ai quali, forse, manca il
coraggio di rivolgerla al loro insegnante. La differenza importante,
però, è che Manin ha tentato una risposta: «La matematica ha a che
fare con concetti che si possono trattare come se fossero oggetti
reali». Concetti che devono essere sufficientemente chiari da essere
riconoscibili in ogni contesto in cui possano venire utilizzati, ma
anche dotati di «forti potenzialità di connessione con altri
concetti dello stesso tipo». Tali connessioni possono a loro volta
assurgere a oggetti, iniziando «una gerarchia di astrazioni» che in
linea teorica non ha fine: così, per esempio, l'algebra ha fatto
diventare le operazioni aritmetiche i suoi nuovi oggetti, ecc.
Salendo in questa gerarchia, comunque, non si perde il contatto con
la realtà: decollando dal loro terreno di origine le nozioni
matematiche si rivelano capaci di applicazioni insospettate, sia
nella spiegazione dei fenomeni naturali sia nell'intervento
tecnologico.
Pensiamo alla lunghissima
storia che lega la prima attività del contare - coi vecchi e
familiari numeri interi uno, due, tre ecc. - ai computer superveloci.
Qualche millennio fa alcuni «protomatematici», ovvero prudenti
pastori e sagaci amministratori, «numeravano pecore in fenicio»,
per dirla con una battuta del poeta Ezra Pound; oggi potenti apparati
di calcolo contribuiscono a dimostrare sofisticate congetture,
realizzando un'economia di pensiero che cambia la natura stessa del
lavoro umano. Questo e altri aspetti della ricerca matematica sono
messi in luce dall'articolo di Manin che apre il secondo volume della
serie (di quattro) La matematica, a cura di Claudio Bartocci e
di Piergiorgio Odifreddi (Einaudi). È dedicato a Problemi e
teoremi, cioè alla linfa vitale di un'attività che forse più
di ogni altra, a parte la musica, è insieme comprensione scientifica
e opera d'arte, costruzione linguistica ed espressione di
razionalità.
Il lettore vi troverà la
storia delle grandi congetture che hanno resistito agli sforzi umani
per decenni o addirittura secoli, cedendovi solo di recente, come
«l'ultimo teorema di Fermat» (dimostrato da Andrew Wiles) o la
congettura di Poincaré (dimostrata da Grigori Perelman), e quelle
che ancora restano delle sfide aperte all'immaginazione di coloro che
amano leggere nel grande libro matematico del mondo. È il caso, per
esempio, della celebre «ipotesi di Riemann», cui è dedicato nel
volume il bel saggio di J. Brian Conrey. E tutti i collaboratori
mostrano come problemi e teoremi possono anche venire immersi in
«programmi di ricerca», simili, per certi versi, a carte
geografiche in cui alcune aree sono raffigurate con notevole
chiarezza (sono quelle da dove partiamo: gli elementi di cui siamo
sufficientemente sicuri), mentre altre vengono ricostruite sulla
scorta di analogie (sono le «terre incognite»: i nuovi settori da
investigare) - sicché le indagini qui assumono i caratteri
dell'avventura, non troppo diversamente dall'impresa di Colombo.
Com'è noto, questi si sbagliò nel suo tentativo di raggiungere
l'Oriente passando per l'Occidente; ma l'ostacolo che trovò sulla
sua rotta verso le Indie doveva rivelarsi un continente ricco di
risorse inaspettate. E - dal calcolo infinitesimale alle geometrie
non euclidee, dalla teoria dei numeri allo studio delle probabilità,
dalle matematiche combinatorie alla topologia generale - l'impresa
dei matematici ha saputo trovare la sua «America della conoscenza».
Si è trattato di un tipo
di esplorazione così vario e complesso da rendere impossibile una
rigida definizione dell'essenza della matematica. Sono stati
soprattutto i filosofi a cimentarsi in questa impresa degna del
despota Procuste; ma appena ne avevano tracciati i confini, si
accorgevano che ne era rimasta esclusa una qualche componente di
grande rilevanza e fascino. E forse la matematica è simile a un
organismo vivente, che non si può costringere in uno spazio angusto,
come faceva quel mitico tiranno, senza ucciderlo.
Un po' malignamente Manin
osserva come, al tempo dell'antica Roma, che si veniva aprendo sempre
di più alla cultura greca e a quella orientale, la matematica non
ebbe grandi riconoscimenti: i valori imperiali di coraggio, onore,
gloria, disciplina le lasciavano poco spazio. Colpa degli stessi
matematici? Quando si mettono al tavolo e iniziano a lavorare, essi
«dimenticano valori in conflitto come autorità, efficienza,
ambizione, fede e così via». Ma questa indipendenza è il segreto
della loro forza: non solo nei confronti del potere, ma anche della
stessa filosofia, che talvolta cerca di rinchiudere l'animale
matematico in gabbia, salvo accorgersi che, appena serrato il
chiavistello, questo è evaso. Dobbiamo allora rinunciare a qualsiasi
filosofia della matematica? O magari a qualunque filosofia, senza
ulteriori qualificazioni? Le categorie filosofiche, al contrario dei
concetti matematici, difficilmente diventano «oggetti» di quel tipo
di indagine operativa che consente al matematico di trovare «al di
là della superficie delle apparenze» (come diceva Bernhard Riemann)
connessioni profonde tra campi apparentemente scollegati. Né esse
hanno l'incisività delle idee portanti della fisica o della biologia
- capaci di rinnovare di continuo ingegneria e biotecnologie. E
infine, se è la matematica a innervare concettualmente l' impresa
della conoscenza, c' è ancora bisogno di una filosofia che ci dica
lei che cos' è la razionalità, e che cos' è la realtà? Mi ricordo
che (un po' di anni fa) il mio maestro e amico Ludovico Geymonat, di
formazione sia filosofica che matematica, ammoniva noi giovani a non
cadere nella trappola di definizioni frettolose, guardando invece
alla «effettualità» della pratica matematica (tra l'altro, segnalo
che Bollati Boringhieri ha ristampato, di Geymonat, la Storia e
filosofia dell'analisi infinitesimale, in origine 1948, con una
nuova introduzione di Gabriele Lolli, che bene mostra come quel libro
non sia affatto invecchiato). Alle prese con problemi formidabili,
armato degli strumenti concettuali che la tradizione gli fornisce, ma
al tempo stesso sospettoso di tutto quello che viene dato
semplicemente per scontato, il matematico creativo è davvero il
cittadino di un paese ove «regna la libertà», come diceva Georg
Cantor, che edificò nell'Ottocento l'imponente teoria dei «numeri
infiniti», nonostante l'ostilità di autorevoli colleghi e le
perplessità di importanti filosofi. Glossa Manin: questa libertà è
«la libertà di scelta tra alternative incompatibili», e perciò -
aggiungerei io - è un' assunzione di responsabilità. E dove c' è
libertà c' è anche spazio per la (buona) filosofia.
Corriere della Sera, 29
novembre 2008
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