«Ho avuto una grave
condanna, in passato». La voce, tranquilla e bonaria, è quella di
un anziano signore. Si conoscono per caso al telefono, lui -
l'anziano signore - si chiama Paolo Finardi, mentre dall'altra parte
del cavo c'è Massimo Recchioni, responsabile dell'Anpi in Repubblica
Ceca. Si incontrano dopo qualche giorno - siamo nel mese di marzo
2006 - al tavolo d'un caffè di Bratislava, «all'ombra dei platani».
«Cosí sono venuto a conoscenza della lunga e incredibile storia che
vado a raccontare» e che di fatto Massimo Recchioni ha raccontato
nel libro Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente
della Volante Rossa, pubblicato da DeriveApprodi in uscita in
questi giorni (con prefazione di Cesare Bermani, pp. 160, euro 14).
Andiamo con ordine. Paolo
Finardi accetta d'essere intervistato dopo aver taciuto per quasi
sessant'anni. È un racconto in prima persona, senza note aggiuntive,
a eccezione del saggio introduttivo di Cesare Bermani, il primo
storico che ha ricostruito da sinistra la vicenda della Volante
Rossa. Paolo Finardi, alias "Pastecca", comincia dalle
origini, dal paese natío, Castel Rozzone e di quando tutta la
famiglia, per sfuggire alle ritorsioni dei fascisti, si trasferisce a
Milano. Qui Paolo, poco piú che quindicenne, manovale in una ditta
di costruzioni, si avvicina alla Resistenza. Entra a far parte della
118ma Brigata Garibaldi. Porta in giro per la cittá messaggi
nascosti nel sellino della bicicletta, fa il palo durante le azioni
contro i tedeschi, fino a che non prende a partecipare in prima
persona.
Il pensiero vola in
particolare a Eugenio Curiel, fisico triestino, ebreo e comunista,
chiamato a dirigere l'Unitá clandestina e ucciso alla fine del
febbraio '45 in un agguato dai repubblichini. «Ricordo che fummo
tutti scioccati da quella notizia. Era davvero una brava persona e
incuteva coraggio a molti di noi, soprattutto ai piú giovani».
All'assassinio di Eugenio Curiel, vedremo, saranno in qualche modo
legate le scelte e le sorti personali di Paolo Finardi.
Dopo il 25 aprile si apre
una fase di incertezza. Tra le diverse forze politiche che hanno
animato la Resistenza si generano sospetti reciproci. «Non fummo i
soli a non consegnare le armi. Ci arrivavano voci di gruppi di
partigiani che se le erano tenute, e in molti casi si trattava di
partigiani "bianchi". Se le avevano tenute, un motivo ci
doveva pur essere. Ma sicuramente lo scopo per cui loro e noi ce le
eravamo tenute non era lo stesso... Morale della favola, a eventuale
difesa non consegnammo praticamente nulla». Sono anni di intensa
attivitá politica delle massa, scrive Cesare Bermani nel saggio
introduttivo del libro. Le disposizioni dei partiti a riconsegnare le
armi furono in grandissima parte disattese. La storiografia di
sinistra è stata fin troppo subalterna, scrive Bermani, sulla
Volante Rossa perché ha rinunciato a ricostruire la storia sociale
di quegli anni. Nel Pci «non esisteva neanche una vera e propria
alternativa organizzata alla linea di Salerno, ma vi era in esso un
marcato atteggiamento di preoccupazione per quanto poteva accadere in
quell'Europa del dopoguerra e nel Paese. C'era allora nell'aria il
pericolo di un colpo di Stato monarchico, operavano squadre armate
fasciste e qualunquiste, e, anzi, tutti i partiti, in parallelo
all'organizzazione politica, disponevano di una struttura militare,
non solo per difendersi dai fascisti ma anche perché l'ala
conservatrice della Resistenza diffidava di azionisti, comunisti e
socialisti, e viceversa». Anche la Dc incamera armi, quelle dei
partigiani bianchi e quelle mandate dagli americani a ridosso delle
elezioni del 18 aprile 1948.
Ma non c'è quella Gladio
rossa di cui gli americani parlano giá a partire dal '46 e che
servirá da alibi per la creazione dell'unica vera Gladio, la
struttura occulta della Nato. «La posizione del Pci - scrive ancora
Bermani - in materia di armi puó essere cosí sintetizzata: se la
gente per conto proprio e spontaneamente vuole accantonare le armi
sono faccende sue, inclusi i rischi che corre e non sono problemi di
nessuna organizzazione di massa. E i depositi di armi non debbono
avere niente a che vedere direttamente con l'azione politica e il
comportamento politico ufficiale né del Partito comunista né delle
varie organizzazioni di massa sorte attorno a lui».
Timore di colpi di stato
monarchici, gruppi neofascisti in formazione, armi americane e un
forte conflitto sociale, nella fattispecie all'interno delle
fabbriche del nord. Questo è lo scenario in cui agisce la Volante
Rossa. Ufficialmente è un circolo ricreativo-sportivo alla Casa del
popolo di Lambrate dove si organizzano gare, balli ed escursioni. «Ma
era anche la sede di un gruppo - torniamo al racconto di Paolo
Finardi - che vigilava su quanto stava continuando a succedere anche
in tempo di pace. Nei tribunali venivano interrogati molti fascisti,
ma quasi tutti venivano rilasciati e si contavano sulla punta delle
dita i casi in cui erano messe sotto processo personalitá di spicco
del regime. Ancora meno frequentemente ci si occupava di quelli che
si stavano riorganizzando. Eppure lo facevano quasi alla luce del
sole e noi li conoscevamo quasi tutti: sapevamo chi erano, dove si
incontravano e spesso sapevamo anche quali erano i loro progetti».
La Volante Rossa intensifica le azioni nel '47 mentre stanno nascendo
i gruppi fascisti delle Sam (squadre d'azione Mussolini) e delle Far
(fasci di azione rivoluzionaria), prodromi dell'Msi. Nel gennaio del
'49 Finardi partecipa a un doppio agguato: nei confronti di Felice
Ghisalberti, responsabile dell'uccisione di Eugenio Curiel, e di
Leonardo Massaza, una vecchia spia dell'Ovra, la polizia segreta
fascista.
Da questo momento la vita
di Finardi cambia. La polizia stringe il cerchio intorno a lui. Non
resta che la fuga all'estero, oltre cortina. Il partito si fa vivo
nella veste di due funzionari che gli fanno un discorso che piú
chiaro non si puó. «Il partito non è obbligato a darti una via
d'uscita, chiaro? Quindi, il partito ci pensa nonostante non abbia
chiesto a voi della Volante Rossa di andare in giro a fare i
giustizieri. Se qualcuno ti ha detto che c'era un livello di
sicurezza non siamo stati certo noi! Il partito sa che queste cose
succedono ma non le organizza affatto, anzi non ne sa proprio un
cazzo, e questo dovevi averlo chiaro fin dall'inizio». L'alternativa
alla fuga all'estero sarebbe il carcere. Paolo Finardi sceglie la
Cecoslovacchia. Ci arriverá con un viaggio travagliato, prima
attraverso le montagne verso la Svizzera, poi in Austria, infine a
Praga. Qui incontrerá altri fuoriusciti per gli stessi motivi
politici suoi, anche se in mezzo c'è qualcuno che ne ha approfittato
per attuare vendette personali, «ma si riconoscevano subito». È un
lungo dopoguerra. Finardi frequenta scuole di partito e si mette a
fare i lavori piú svariati, nelle cooperative agricole come in
fabbrica. Trascorre anche un periodo nella Cuba rivoluzionaria di
Fidel Castro e del Che. È testimone della Primavera di Praga.
«Rivisitando gli episodi accaduti in quei mesi col senno di poi, mi
resi conto che molti di quelli che vedevano in Dubcek un innovatore
erano davvero comunisti. Ma allora le cose non erano affatto cosí
chiare. C'erano presumibilmente forze reazionarie, e non solo
interne, che strumentalizzavano gli eventi. Quella situazione,
soprattutto se seguita da altre analoghe, minacciava di diventare una
mina vagante, una spirale estremamente destabilizzante». Cosí le
truppe del Patto di Varsavia invasero il paese. Sta di fatto peró
che «ci accorgemmo che lo strappo tra dirigenza e masse popolari
ormai si era consumato. E avremmo capito solo dopo che proprio quello
fu l'inizio della parabola discendente del sistema socialista
cecoslovacco».
La fine di questo esilio
arriverá solo piú tardi con l'elezione del partigiano Sandro
Pertini a Presidente della Repubblica. Paolo Finardi ottiene la
grazia. Proprio quando in Italia la lotta armata è all'apice. E qui
si affaccia un altro mito, quello del filo rosso tra l'esperienza
della Volante Rossa e la nascita delle Br. È vero che nel linguaggio
delle Brigate rosse torna spesso il motivo della Resistenza
interrotta o, di piú, della Resistenza tradita, delle aspirazioni a
una rivoluzione sociale che non arrivó mai e di cui la Volante Rossa
è stata nel tempo trasformata in simbolo. Eppure alle orecchie di
chi della Volante Rossa fece parte davvero l'analogia non funziona.
«Dall'Italia - racconta ancora Paolo Finardi - ci arrivavano notizie
a dir poco sconcertanti. Il paese si trovava immerso fino al collo in
quelli che venivano definiti gli anni di piombo. Un clima
irrespirabile, non da guerra di liberazione come era stato trent'anni
prima. Infatti le condizioni storiche e politiche erano completamente
diverse da allora. Noi eravamo nei luoghi di lavoro, lí avevamo le
nostre basi, ci vivevamo, eravamo radicati nei quartieri, seduti a
ogni muretto, presenti in ogni capannello, in tutte le fabbriche
sorgeva il bisogno di trasformazione in senso socialista della
societá e del superamento delle classi. Invece, dal clima di lotte
fratricide che si stavano consumando a trent'anni di distanza, la
grande assente sembrava proprio essere la classe operaia». Ma
neppure corrisponde a vero nel racconto di Finardi la tesi dei
contatti tra brigatisti, vecchi partigiani fuoriusciti e servizi
segreti cecoslovacchi. «Io vivo qui dal 1949 e ho sempre mantenuto
stretti rapporti con i compagni di Praga. Se ci fosse stata la
presenza di brigatisti italiani per esercitazioni paramilitari beh...
credo proprio che almeno uno, dico solo uno, tra i compagni piú
informati e meno scemi di noi se ne sarebbe sicuramente accorto, o
comunque ne sarebbe venuto a conoscenza, di persona o anche solamente
per sentito dire. E invece no. Nulla del genere».
Concludiamo con le stesse
parole di Paolo Finardi. «Chissá, piú di una volta ho pensato che
se anche l'Italia avesse provato a fare i conti col suo passato con
processi veri e condanne esemplari dei colpevoli, molto probabilmente
molti di noi non avrebbero fatto le scelte che hanno fatto. Per
quello che riguarda me, sono sicuro che non ci sarebbe stato questo
Paolo Finardi se coloro che erano preposti avessero fatto giustizia».
Liberazione, domenica, 22
febbraio 2009
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