«Quali
sono gli effetti politici delle ineguaglianze economiche?». È una
delle domande fondamentali in questa fase di cambiamenti politici.
Dagli Stati Uniti a molti Paesi europei, a cominciare dall’Italia.
Galbraith, 66 anni, è il figlio del celebre economista di Harvard,
John Kenneth Galbraith. È considerato uno degli esponenti della
scuola progressista post-keynesiana. Insegna all’Università del
Texas, che ha sede ad Austin. Tra i suoi libri più noti, The
Predator State
(Free Press, 2008).
Tra gli economisti
è acceso il dibattito sull’origine delle disuguaglianze nella
storia recente. Qual è stato il momento chiave?
«Per
quanto riguarda gli Stati Uniti il punto di svolta risale alla fine
degli anni Settanta e poi all’arrivo di Ronald Reagan alla Casa
Bianca (1981-1989). È anche il periodo in cui Margaret Thatcher
diventa primo ministro in Gran Bretagna (1979-1990). Più o meno da
quel momento e per circa 25 anni, la ricchezza economica è stata
sostanzialmente confiscata da un’oligarchia. E avere la ricchezza,
come diceva Thomas Hobbes, significa detenere il potere. Quello che è
successo e sta succedendo negli Stati Uniti non è molto diverso da
quello che è accaduto in Russia, in Ucraina e in altri Paesi. In
America le istituzioni che avrebbero dovuto garantire un certo
equilibrio e una redistribuzione delle risorse sono state occupate e
dominate da pochi gruppi molto facoltosi. Sono vicende ben note. Mi
riferisco alla tumultuosa ascesa di Wall Street e della finanza, con
l’appoggio delle grandi società multinazionali e poi alla nascita
del polo tecnologico della Silicon Valley. Oggi vediamo quanto potere
sia concentrato nelle mani di pochi soggetti. È un fenomeno che sta
minando il corretto funzionamento della democrazia».
Le disparità
continuano ad aumentare?
«Non
ne sono convinto. I dati mostrano che negli Usa c’è stato un picco
nel Duemila e poi una leggera flessione e una stabilizzazione».
Merito di Barack
Obama? Servirebbe tornare a quelle politiche per combattere le
disuguaglianze? All’interno del Partito democratico è in corso
un’accesa discussione...
«È
vero, la presidenza Obama si era posta l’obiettivo di contrastare
le disuguaglianze. Ma quello che sembrava un autentico interesse è
stato poi smentito dalla gestione concreta della grande crisi
economica del 2008. Obama ha nominato nei posti chiave figure
provenienti dal mondo finanziario. La priorità assoluta
dell’amministrazione è stata salvare la finanza. Un solo esempio:
il piano di salvataggio delle banche è stato concepito e applicato
da personaggi vicini a quegli ambienti, a partire dal segretario al
Tesoro Timothy Geithner. In sostanza la presidenza Obama non ha
disturbato il controllo della politica economica da parte di
personaggi legati agli ambienti finanziari. Tutto ciò non deve
sorprendere perché le campagne elettorali dell’allora presidente,
come pure quelle di Hillary Clinton, all’epoca segretario di Stato,
sono state massicciamente sovvenzionate da Wall Street».
C’è chi sostiene
che gli squilibri economici tra le fasce della popolazione e tra i
diversi Stati abbiano spinto Donald Trump verso la Casa Bianca. È
d’accordo?
«Be’,
il quadro mi sembra un po’ più complicato. Se guardiamo ai dati,
che ho verificato con accuratezza, viene fuori che nei 14 Stati in
cui le disuguaglianze sono aumentate di più nel periodo dal 1990 al
2014 ha vinto Hillary Clinton. Invece negli Stati in cui le distanze
tra i più ricchi e gli altri sono cresciute di meno, Trump ha vinto
con largo margine. Ci sono stati tanti fattori che hanno giocato,
anche a livello dei singoli Stati, ma non credo che il risultato
elettorale del 2016 sia stato condizionato da una reazione alle
disuguaglianze economiche».
Quali sono i
provvedimenti concreti che andrebbero adottati per ridurre le
disuguaglianze?
«Guardo
alla realtà americana. Innanzitutto bisogna aumentare il salario
minimo, come ha fatto di recente Amazon, portandolo a 15 dollari
l’ora. E questa è una buona notizia. Poi bisogna estendere la
copertura delle assicurazioni sanitarie e sociali. Frantumare le
grandi banche in modo da creare entità più piccole, più
competitive e sottoposte a controlli più efficaci. Ancora: riformare
le tasse sull’eredità, in modo che non sia possibile trasferire
oltre un certo limite le ricchezze. I fondi in eccesso andrebbero
redistribuiti alle istituzioni che si occupano di salute, di
istruzione. In questo modo verrebbero meno le dinastie familiari che
dominano l’economia. Infine vanno tassati nello stesso modo i
redditi da lavoro e le rendite da capitale».
È un programma
molto vasto. Realisticamente potrebbe ottenere il consenso politico
per essere applicato?
«Anche
io ragiono da politico realista. E mi rendo conto che potrei anche
non vedere la completa realizzazione di un programma come questo nel
corso della mia intera vita. Ma se qualcuno mi chiede se esiste una
via più facile per diminuire le disuguaglianze, la mia risposta è
no. Queste sono le misure che occorrono, perché sono le uniche che
funzionerebbero davvero».
Come giudica,
allora, le politiche adottate dai nuovi governi populisti? In Italia
i leader del Movimento Cinque Stelle hanno condotto la campagna
elettorale promettendo che avrebbero migliorato le condizioni delle
persone rimaste indietro...
«Posso
solo dire che non sono persuaso che il governo italiano finora abbia
adottato misure abbastanza forti per rilanciare l’economia e
risollevare le condizioni dei lavoratori. Vedo che ci sono molti
problemi all’interno dell’esecutivo, in particolare con il
ministro Giovanni Tria, e con la Commissione europea».
E Trump?
«Non
credo affatto che Trump e il Partito repubblicano si preoccupino
davvero delle condizioni della working
class.
Credo siano state profondamente insincere le promesse rivolte ai
lavoratori durante la campagna elettorale. Tuttavia l’amministrazione
continua a mettere in campo provvedimenti di politica economica che
favoriscono la crescita. E quindi è possibile che con una crescita
più forte, e nonostante le reali intenzioni dei repubblicani al
governo, anche la condizione della working
class
a un certo punto possa migliorare».
La
Lettura – Corriere della Sera, 14 ottobre 2018
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