26.1.19

“Recitare mi fa sentire bene”. Intervista a Lucia Sardo (Marco Celeschi e Melita Leonardi)

Corte dei medici è una pizzeria-ristorante catanese ove i curatori di “Sorprendente Sicilianità”, Marco Celeschi, architetto, Melita Leonardi, docente di letteratura, sono soliti incontrare le personalità siciliane che intervistano, ed è per questa ragione anche il titolo di una rubrica del sito. (S.L.L.)


Lucia Sardo, una delle più apprezzate attrici di teatro e di cinema in Italia, una vera e propria onewoman show, capace di animare un palcoscenico da sola, per ore, grazie all’incantesimo che solo un talento straordinario può creare, è venuta a trovarci alla Corte dei medici e ha risposto, con la verve che la contraddistingue, alle nostre domande.

Quando inizia il tuo sogno di fare l’attrice?
Che fossi un’artista, l’ho sempre saputo. Fin da bambina, danzavo e ballavo. Devo dire anche che a casa mia, in tutti i familiari, c’era una vena artistica. Facevo delle scenette e, un anno, mi ricordo che mia sorella maggiore andò a Roma e mi portò in regalo delle scarpette da ballo. Ogni giorno, mi mettevo sulle punte e cercavo di imitare quello che vedevo in televisione. Quando sono cresciuta, avrei voluto frequentare il Liceo artistico, ma i miei genitori erano assolutamente contrari. Fui iscritta al Liceo scientifico a Lentini.

Una tortura, insomma. E come è andata questa vicenda?
Nel modo più ovvio: fui bocciata. La mia famiglia preferì allora l’Istituto Magistrale a Palagonia. Non ho un ricordo bello di quegli anni. Ho attraversato un periodo di ribellione. Oltretutto, mia madre stava male.

Ma, alla fine, anche gli anni della scuola si chiudono...
Sì. Fu una liberazione! Sono riuscita a realizzare quello che desideravo di più: andare via dal paese. Era una realtà troppo ristretta e mi sentivo prigioniera.

La meta qual era? Roma?
No. Decisi di frequentare il Magistero all’Università Cattolica a Milano. Mio fratello, molto più grande di me, già viveva in un paese lì vicino. Oltretutto, erano anni in cui trovare un lavoro era abbastanza facile. Nell’Istituto dove insegnava mio fratello cercavano personale per il doposcuola e ho dato la mia disponibilità; ma, fatto ancora più casuale, si ammalò la segretaria della scuola e il preside mi offrì di sostituirla. Quel lavoro, che sarebbe dovuto durare qualche mese, divenne definitivo. Lascio l’Università e comincio, visto che guadagnavo bene, a pensare di riprendere la mia vena artistica. A quel tempo avrei voluto dipingere. Avevo anche progettato di iscrivermi all’Accademia, ma il lavoro mi stancava parecchio e vivevo con il mio compagno dell’epoca. Non ero, tuttavia, felice. Avevo attacchi di panico. A quel tempo non esisteva un nome per definire questa patologia. Pensavo di star impazzendo. E poi mi ammalai seriamente. Finii in ospedale.

Potremmo dire che stavi somatizzando quel malessere?
Lo possiamo dire, eccome! Ma la mia fortuna e la mia guarigione arrivarono per caso. Un’amica mi chiese di accompagnarla alla presentazione di un corso di teatro. Lei, dopo un poco, andò via. Io rimasi.

Devi ringraziare questa amica. Ma l’amore per il teatro è stato subito così forte da farti superare ogni paura?
Devo dire di sì. Grazie al corso ho conosciuto il Teatro di ventura, la mia futura compagnia, e Silvio Castiglioni, che la dirigeva, che è stato il mio maestro. Subito mi ha proposto di lavorare con lui ad un’opera di Molière, Il medico per forza, nel quale avrei interpretato la balia.

Ma come avresti fatto con il lavoro, il tuo fidanzato, la casa?
Ho lasciato casa, lavoro e fidanzato e, devo dire, che mi sono ritrovata, in un batter d’occhio, in Emilia Romagna a vivere l’avventura più bella che possa accadere ad un essere umano. Con i membri del Teatro di ventura abbiamo fondato l’Istituto di Cultura Teatrale che aveva lo scopo di raccogliere e sviluppare, nel corso di tutto l’anno, gli stimoli del festival estivo e di favorire la preparazione del festival seguente grazie al lavoro di un gruppo di teatro stabile. Sono stata con loro per sei anni. Grazie al Festival di Sant’Arcangelo di Romagna, ho potuto conoscere i più grandi maestri del teatro contemporaneo: Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Ryszard Cieslak, Katsuko Azuma, Sanjukta Panigrhai, Peter Brook. Ho incontrato anche Ferruccio Merisi, uno dei direttori del Festival, che ancora oggi è uno dei miei più cari amici.

Come si diventa attore?
Il mio è stato un addestramento militare. Un lavoro sul corpo incredibile. Macinavo chilometri di corsa nei boschi. Ma per il tipo di proposta che volevamo realizzare era l’unica strada.

Anni esaltanti, bellissimi, ma, a quanto capisco, non sei rimasta con loro.
No. Ad un certo punto, ho sentito che era un’esperienza conclusa e ho cercato altro. Sono partita per la Francia grazie a dei contatti che avevo. Arrivo a Digione e inizio a costruire uno spettacolo, Storia di Matilde, che si è rivelato un grande successo e con il quale ho girato tutta l’Europa. Interpretavo sei personaggi in scena che descrivevano Matilde e, infine, arrivava la protagonista.

Francia, Europa in giro per anni e quando torni in Italia?
Sai, nella mia vita ci sono volontà e caso. Probabilmente desideravo tornare in Italia, ma l’occasione si materializzò, un giorno, a Roma: dopo lo spettacolo, mi avvicina un signore, Bruno Grieco, il responsabile culturale per il teatro del Partito comunista, che mi propone di portare il mio spettacolo alla Feste dell’Unità e inizio un’altra fase della mia vita artistica.

Siamo arrivati ai primi anni Novanta, la Sicilia sembra lontanissima dalla tua vita, dal tuo lavoro. Pensavi mai di tornare a vivere qui?
Ma, aspetta, abbiamo parlato ancora dei primi anni – Lucia ride in quel modo così caratteristico – ora ci arriviamo. Nei primi anni Novanta, conosco il mio futuro marito, Marcello. Abbiamo iniziato a lavorare insieme come attori e poi lui ha scelto di dedicarsi alla regia.

Ma com’è che vi siete conosciuti?
Ehi, ma sei curiosa! Vuoi proprio sapere tutto! Allora ci ha presentati il grande Mimmo Cuticchio, il puparo palermitano con cui mio marito, allora, lavorava. Comunque, innamorata, sposata, abbiamo deciso di avere un bimbo. A quel punto, il desiderio di tornare e di far vivere mio figlio in Sicilia anche con la mia famiglia è diventato un’idea concreta.
Mi trasferisco di nuovo e, colpo di scena, il cinema entra nella mia vita. Aurelio Grimaldi cercava un’attrice per il film La discesa di Aclà a Floristella. Aurelio, all’epoca, era giovanissimo e io lo avevo scambiato per un membro della produzione. Gli chiesi pure di aiutarmi a ripassare la parte. Da lì è iniziata una lunga collaborazione con altri film.

Con un red carpet a Cannes, mi sembra
Ero l’unica attrice con in mano un sacchetto, avevo messo le scarpe di ricambio, non si sa mai (Lucia mi lancia un’occhiata buffissima), ma un’amica se n’è accorta e me l’ha sequestrato. Direi che ha fatto bene (l’intervista si interrompe per le risate).

Ma posso aggiungere che il bello deve ancora venire?
Lo puoi dire sicuramente perché vengo a sapere che Marco Tullio Giordana organizza un provino per I cento passi, nel frattempo avevo anche l’impegno con Giuseppe Tornatore (Malena ndr) e dovevo girare un episodio della serie Montalbano. Un delirio!

Ma hai scelto Felicia Impastato e sei diventata un simbolo in tutto il mondo.
Sì, è stato un incontro veramente unico che ha condizionato la mia carriera successiva ma che non rimpiango. Non lo posso rimpiangere. A parte lo straordinario successo,il film è stato proiettato anche in tutte le Università americane e ho ricevuto i complimenti di Hillary Clinton.

In che senso la tua carriera è stata condizionata?
Beh, mi proponevano sempre film e personaggi dello stesso tipo. Ma non mi interessa fare lo stesso film a vita. Subito dopo ho optato, infatti, per il primo film di Franco Battiato, Perduto Amor, che mi ha permesso di conoscere un uomo straordinario e un caro amico. Dopo ho girato anche una commedia di Carlo Verdone, Che colpa abbiamo noi!

Ma il tuo legame con Felicia Impastato è continuato con grande interesse e successo.
Sì, è vero. Ho voluto narrare il dopo della storia di Felicia. Ho scritto La madre dei ragazzi per raccontare la sua attività di testimone contro la mafia e la sua battaglia per dare giustizia alla figura di suo figlio.

Lucia Sardo, oggi, cosa ti e ci aspetta (ci dobbiamo fermare perché i clienti del tavolo accanto al nostro, dopo aver tentato in tutti i modi di captare la nostra conversazione, si lanciano in una serie di complimenti indirizzati a Lucia)?
Avrò una lunga serie di impegni: un film, Picciridda, tratto dal libro di Catena Fiorello. Uno spettacolo, Rondine, allo Stabile di Catania. Un altro, Chi vive giace, chi muore si dà pace, di Roberto Alajmo allo Stabile di Palermo e una ripresa, a Milano, del mio caro La madre dei ragazzi.

Un’energia veramente invidiabile, ma come fai?
Ti rispondo che non lo so ma anche che lo so: recitare mi fa sentire bene!

Su queste parole si chiude la nostra intervista a Lucia Sardo che ringraziamo per la sua gentilezza e disponibilità.

Dal sito “Sorprendente Sicilianità”, 9 Dicembre 2018

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