5.4.19

Il Caso Dickens (Pietro Citati)



In una sera del giugno 1849, la cugina maggiore di Henry James cominciò a leggere a voce alta, sotto la lampada della grande biblioteca, la prima puntata del David Copperfield. La madre di James stava ascoltando. Il prodigioso bambino il quale possedeva la stessa memoria di Dickens, la stessa capacità di conservare, intatti e freschissimi, i primi ricordi della sua vita era stato mandato a letto. Aveva appena sei anni. Ma le luci e il primo tepore dell'estate, il fascino di quella voce familiare che leggeva un libro sconosciuto, lo indussero a disobbedire all'ordine materno. Il bambino si nascose sotto l'ombra di una tovaglia, che copriva un tavolo sino ai piedi; e lì, rannicchiato e incollato al tappeto, ascoltò la voce della cugina raccontare la nascita di David, la comparsa della zia Betsey, le guance rosse e sode di Peggotty, il signor Murdstone con i favoriti neri e gli occhi tenebrosi, la signorina Murdstone nera e metallica, e la barca dei Peggotty, il caldo, rosso e confortevole nido, in secca sulla spiaggia di Yarmouth. Ascoltò per ore, estasiato, trattenendo il respiro, mentre il racconto sembrava non finire mai. Quando udì le torture di Murdstone e le sventure di David, la corda sottile che aveva strettamente legato la narratrice e il piccolo ascoltatore si ruppe; e il bambino scoppiò in lacrime. Il sotterfugio fu scoperto: Henry James fu mandato a letto; ma il segno che quella lettura aveva lasciato su di lui fu incancellabile. “Sentii che ero stato generato, generato a una ricca consapevolezza, sotto il meridiano giusto”.
Dobbiamo ancora leggere Dickens così, sotto il tavolo e l'ombra protettiva, i nascondigli e le lacrime dell' infanzia? Come un miracolo non più destinato a ripetersi negli anni? Come un prodigio che non sopporta lo sguardo della maturità? Henry James fu crudele: quindici anni più tardi, un anno dopo aver pubblicato il suo primo racconto, scrisse che Dickens era il più grande dei romanzieri superficiali... “Una delle condizioni fondamentali del suo genio era di non vedere oltre la superficie delle cose”. Qualche tempo prima, George Eliot aveva detto lo stesso: “Dickens riesce di rado a passare dall'aspetto umoristico ed esterno a quello emotivo e tragico”. Oggi, se escludiamo quelli inglesi e americani, temo che i bambini di tutto il mondo lo abbiano dimenticato. Quanto ai lettori italiani adulti, non lo conoscono affatto. Chi ha letto i suoi capolavori, Dombey e Bleak House? Quanti hanno compreso che La bottega dell'antiquario, invece di meritare gli sciocchi scherzi di Oscar Wilde, è la più bella storia simbolica del secolo scorso?
Non amare Dickens è un peccato mortale. Chi non lo ama, non ama nemmeno il romanzo; e non capisce che l'arte dell'Ottocento ha forse raggiunto il suo culmine quando ha mescolato il più folle riso con la più imperterrita discesa nelle tenebre. Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lessero Dickens con la passione, l'entusiasmo e l'incoerente gratitudine, che egli richiede da ciascuno di noi. Vissero insieme a lui: abitarono dentro di lui, come si abita nella propria casa; e appresero da quel rozzo romanziere popolare i più sottili artifici letterari. Chi imparò da lui le tecniche del romanzo criminale, chi la presentazione dei personaggi, chi il gioco delle voci narrative, chi il dialogo fluviale: chi amò i divini idioti o i simboli o il calore analogico delle immagini. Tutti, in una parola, scorsero in Dickens un grande specchio uno di quegli specchi sgretolati e velati, che talvolta si trovano nelle soffitte dove scoprire se stessi.
Quest'incomprensione non può meravigliare. Se il secolo scorso fu un tempo di mostri letterari, Dickens fu il più misterioso di questi mostri. Comprendiamo Balzac e Dostoevskij: Tolstoj è più difficile; ma quale figura fu più straordinaria e assurda di quella di Dickens? Nessuno possedette il suo fiducioso candore e la sua bonomia, e nessuno fu più allucinato: nessuno conobbe come lui la vita colorata e felice di ogni giorno, e nessuno si inoltrò con tale fervore nel regno delle tenebre. Era luminosissimo e notturno: superficiale e profondo; abitava soltanto cogli uomini reali e parlava soltanto cogli spettri: era ingenuo e sapeva tutto: lieto e pieno di orrori; gioioso e divorato dalle ossessioni. Oggi, la qualità della sua immaginazione ci riesce stranissima. Nulla la distingueva da quella dei grandi creatori, Shakespeare e Cervantes: eppure era, al tempo stesso, la fantasia narcisistica ed euforica dei suoi giovinastri, la fantasia insaziabilmente ciarlante delle sue donne, la fantasia megalomane di Micawber, la fantasia cialtronesca dei mediocri guitti, dei burattinai, degli osti e dei vagabondi, che attraversano lo spazio affollatissimo dei suoi libri. Così possiamo chiedere a Dickens le cose più contrastanti: i prodigi dei sogni e delle Mille e una notte e le più atroci volgarità giornalistiche. Un delizioso e sfacciato romanzo di burattini diventa sotto i nostri occhi un arduo romanzo simbolico: dei pupazzi che ignorano qualsiasi legge psicologica, finiscono per rivelarci le più sottili verità del cuore.

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Del Mistero di Edwin Drood, il romanzo che Dickens lasciò incompiuto morendo la sera del 9 giugno 1870, esisteva una buona edizione italiana, a cura di Guido Almansi e Stefano Manferlotti (Guida). L'edizione che appare in questi giorni nelle librerie si raccomanda sopratutto per il nome dei due coautori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini (La verità sul caso D., traduzione di Luca Lamberti, pagg. 379, lire 30.000), che conoscono, come Dickens, cosa significhi il tremendo abbraccio amoroso dei lettori. Mi riesce difficile giudicare l'Edwin Drood.
Come parlare di un romanzo a intreccio interrotto a metà, spalancato sull'ignoto, con trecento pagine ancora da scrivere, e le pagine già scritte che avrebbero assunto chissà quale nuova luce dalla continuazione? Mi sembra che la leggenda che lo circonda e lo nasconde le centinaia di saggi, di ipotesi, di tentativi di completamento, uno degli sport preferiti dagli anglosassoni eccentrici e pedanti sia esagerata. Come ci è giunto, Il mistero di Edwin Drood è un libro minore di Dickens. Non raggiunge mai la grandezza dei tardi capolavori, Bleak House, Grandi speranze e anche Il nostro comune amico. Nel Mistero di Edwin Drood il sole è morto: la sua luce è macchiata e contaminata: la nebbia la insidia da ogni parte; e le candele gettano raggi sinistri e velati dai vetri. Tutto è enigma: dapprima piccoli enigmi, che Dickens risolve con mano veloce; ma poi ci convinciamo che il grande enigma non potrà mai venire risolto, nemmeno dai poliziotti più acuti, perché coincide con la materia stessa dell'universo. In questa Inghilterra che gronda segreti, Jasper è il cuore dei segreti: quest'uomo malinconico, forse inconsciamente omosessuale, che suona l'organo nelle chiese, odia la vita, insegue sogni impossibili, uccide il nipote, chiede all'oppio il dono della visione. Solo quando contempliamo il suo sguardo uno sguardo fisso, che soggioga, minaccia, odia, terrorizza, sembra attraversare i muri comprendiamo che egli è abitato dalla tenebra. Il male assoluto si è impadronito di lui: esso è la più esclusiva delle vocazioni; e per obbedirgli Jasper è disposto a tutti i delitti e a tutti i sacrifici. Ma conosciamo appena la sua ombra.
Secondo il progetto di Dickens (quello, almeno, in cui io credo), Jasper veniva scoperto e chiuso in carcere; e lì confessava tutte le proprie sensazioni di assassino, come se non fossero sue, ma di un altro. L'idea mi sembra bellissima. In questa rivelazione spontanea e sdoppiata del male, forse Dickens avrebbe detto la sua ultima parola sul mistero del male assoluto sul quale, da Quilp a Bradley Headstone, la sua immaginazione aveva raccolto una ricchezza inesauribile di intuizioni.
Un grande tema dell'Edwin Drood è il tempo, che si raccoglie e gronda da ogni pietra della cattedrale di Cloisterham. Tutto, a Cloisterham, è freddo: sospiri ammuffiti e ombre oscure e chiazze di umidità e mormorii monotoni e spezzati e voci morenti e silenzio definitivo e morte definitiva. La terra contiene la cenere dei corpi di antichi abati e badesse e arcivescovi. La campana della cattedrale è roca: le cornacchie che volano attorno al campanile sono roche; i prelati che passeggiano attorno alla cattedrale sono cornacchie ancora più roche. Gli oggetti non riscattati al Monte di Pietà vecchi orologi che lasciano traspirare un vecchio sudore, mollette per lo zucchero annerite, libri scompagnati stringono il cuore di raccapriccio. Dappertutto si insinuano i fantasmi: di uomini, di donne, di gridi; un'immensa spettralità avvolge questo e tutti i libri di Dickens, come non accade, forse, in nessun altro scrittore di un secolo che si è lasciato completamente risucchiare dalle ombre. Che orrore provava Dickens col suo rosseggiante cuore dionisiaco davanti a questo tempo accumulato, raddensato, ripetuto, spettrale! Che angoscia davanti al battito ossessivo degli orologi! La parte comica è meno felice. In un angolo della propria mente, Dickens portava una raccolta di pupazzi già usati o usati a metà: scene a metà fabbricate; e vi ricorreva quando doveva colmare un vuoto della narrazione. Nell' Edwin Drood, si ha spesso l'impressione di vecchi, gloriosi e polverosi arnesi teatrali, tratti ancora una volta dal magazzino. Nelle parti riuscite, il comico è sempre alcoolico, parossistico, demenziale. Un personaggio è paragonato a una cosa: diventa quella cosa: Durdles una pietra, Grewgious un pezzo di legno; mentre l'oggettivazione e la disumanizzazione crescono, il comico diventa più eccentrico e vertiginoso. Insieme a Durdles soffriamo la sinistra e gelida comicità della pietra, della tomba, della cripta, della morte: mentre la materia di cui è fatto Grewgious testa di legno, lingua di legno, mani di legno rivela che la tenerezza è il segreto nascosto nel cuore del legno.

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A differenza dei loro cento confratelli inglesi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini non hanno cercato di continuare e di completare Il mistero di Edwin Drood: impresa ridicola. La loro invenzione è più ingegnosa. Nella cornice che si insinua da ogni parte tra i capitoli del romanzo incompiuto, immaginano che ai giorni nostri, a Roma, si svolga un convegno dedicato Completeness is all: Dibattito internazionale sul completamento di opere incompiute o frammentarie in musica e letteratura. Gli sponsor sono giapponesi: due società che dominano il mercato mondiale dell'elettronica e dei ricambi automobilistici. Per una settimana, nell'albergo Urbis et Orbis, perduto tra le radure e i cantieri della Cecchignola come in un film di Fellini, musicologhi, storici antichi e critici letterari analizzano la Sinfonia n. 8 di Schubert, L'arte della Fuga di Bach, la Turandot di Puccini, Ab urbe condita di Tito Livio, il Gordon Pym di Poe e Il mistero di Edwin Drood. Non sappiamo nulla degli esperti di Schubert e di Tito Livio. Ma gli esperti del Drood non sono dei normali studiosi di letteratura. Nel sottosuolo dell' Urbis et Orbis, si raccolgono, attorno al direttore di The Dickensian, Auguste Dupin, Porfirij Petrovic, Sherlock Holmes, Padre Brown, Hercule Poirot, Philo Vance, Maigret, il capitano Hastings e Nero Wolfe: i massimi detective della storia della letteratura. Il vero padre della critica letteraria non è Aristotele né Sainte-Beuve né Benedetto Croce: ma Auguste Dupin, il melanconico investigatore di Poe, il tenebroso e snobistico principe di tutti coloro che dedicano la loro vita all'interpretazione dei segni, trasformando l'intuizione e l'analogia in perfetti strumenti matematici. Ingegnosi come sono, Fruttero e Lucentini riportano la critica letteraria alle sue origini poliziesche. Ogni indizio viene studiato, e messo in rapporto con tutti gli indizi che affiorano da quella selva di segni che è un libro. L'amabilità, il brio, l'arte della suspense, l'eleganza, il gioco paradossale sono simili, nel racconto-cornice, a quelli che ispirarono La donna della domenica questo libro delizioso, non registrato in nessuna storia della letteratura. Non posso nascondere che non condivido l'ingegnosissima soluzione escogitata da Poirot, che illumina in modo impensato i misteri dell'Edwin Drood e della morte di Dickens. Ma quale sia questa soluzione, e in che modo vi giungano i più grandi poliziotti della letteratura, a nessun costo lo rivelerò ai lettori di Repubblica.

"la Repubblica", 26 novembre 1989

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