7.4.19

La nostra America. La metamorfosi di un sogno da Goethe a Efrem Bartoletti (Salvatore Lo Leggio)


Sul finire del 2001 – dopo l'attentato alle Torri Gemelle – si scatenò da parte della stampa, non solo governativa (al governo c'era Berlusconi), ma anche di opposizione una sorta di “caccia all'antiamericano”. In quella temperie politica, percorsa da interventismi (dall'Afghanistan all'Iraq) e da venti di guerra, Rossana Rossanda osò rivendicare il proprio antiamericanismo. Scrissi in quell'occasione per “micropolis” l'articolo che segue. Il compagno “filoamericano” di cui scrivo come un maestro, pur senza farne il nove, è Maurizio Mori, che è morto qualche anno fa. Manca moltissimo a me e a non pochi altri. (S.L.L.)


Gli appassionati della materia, purtroppo sempre meno numerosi, sanno che Marx riteneva possibile nell'America democratica quella transizione pacifica al socialismo, che giudicava assai improbabile negli stati europei. Non era il solo del resto, in Europa, a considerare “speciali” gli USA. A costruirne il mito aveva contribuito, tra i primi, Goethe, che agli StatiUniti aveva dedicato un'ode:

America, a te va meglio
che al nostro continente, quello antico:
tu non hai castelli in rovina,
e non hai basalti.
Te nell'intimo non turbano,
quando è tempo di vivere,
ricordi inutili e contese vane.
Sii felice, nel servirti del presente!

È qui concentrata l'ideologia del “nuovo inizio”, il sogno della libertà che sopprime, con le memorie, le gerarchie. Nel corso dell'Ottocento ne ribadisce il fascino il libro fin troppo celebrato di Tocqueville sulla democrazia americana, pieno di liberale diffidenza, ma anche di ammirazione. Una svolta nell'immaginazione dell'America si compie tuttavia verso la fine del secolo, come effetto della rivoluzione industriale. A segnalarla è, tra gli altri, un testo celebre, un discorso di Roosevelt del 1932, pubblicato con il titolo Sul governo progressista. Il presidente del New Deal rievoca dapprima Hamilton e Jefferson, tra loro in contrasto, ma solo per un diverso approccio allo stesso problema, l'individuo e la sua libertà. Nel loro tempo “non c'erano poveri” e alle depressioni economiche si poteva reagire salendo su un carro coperto e spostandosi ad ovest, ove le praterie vergini promettevano un paradiso. Gli States così offrivano chances non solo ai residenti, ma anche ai poveri che da tutto il mondo continuavano ad arrivare. Ma l'avanzata del vapore - spiega Roosevelt - produce il nuovo sogno di “una macchina industriale, capace di aumentare il livello di vita per tutti, di portare il superfluo alla portata dei più umili”. Il mito del benessere, della ricchezza si accompagna e, un po' per volta, si sostituisce a quello della libertà. Ne nasce, per il celebre presidente, una irrisolta contraddizione: per corroborare questo sogno di sviluppo la politica sostiene le grandi compagnie finanziarie e perfino i trusts, ma il risultato è l'aumento delle disparità e delle povertà. Nel Novecento pertanto non esistono più né l'originaria eguaglianza di opportunità, né un ovest da colonizzare, né un'abbondanza senza fine da promettere ai poveri d'Europa.
Il disegno storico di Roosevelt risente di semplificazioni propagandistiche, ma non manca di una sua verità interna, rintracciabile nei documenti più vari, perfino nelle canzoni popolari italiane. Nell'Ottocento a quella notissima del figlio che chiede alla mamma cento lire per andare in America ne corrisponde un'altra che evoca l'“America allegra e bella”, l'“America sorella”. È il tempo in cui negli USA, oltre che in Brasile e in Argentina, emigrano dall'Italia non soltanto i poveri genericamente intesi, ma i protagonisti delle guerre civili striscianti che percorrono il neonato regno, capi del brigantaggio meridionale, ex-garibaldini delusi, anarchici e socialisti d'ogni regione, dopo le feroci repressioni. L'emigrazione è insieme politica e sociale.
Nel Novecento la situazione muta. I bastimenti partono per Nuova York ancora carichi di poveri e di dissidenti, ma l'accoglienza è diversa. “E nce ne costa lacreme st'America”, spiega la celebre canzonetta napoletana, aggiungendo considerazioni sul “pane amaro”; un altra, siciliana, ironizza sulla presunta facilità di guadagno (“Monì, monì, monì, dov'è questa monì?”). Un testo poetico francese del 1911, considerato con Zone di Apollinaire il capostipite del modernismo novecentesco, La Pasqua a New York di Blaise Cendrars, insieme a tante novità di linguaggio, fornisce un'immagine in questo caso tradizionale, ma molto forte dei nuovi americani:

Signore, la folla dei poveri per cui tu facesti il Sacrifizio,
È qui chiusa e stabulata come bestiame, nell'ospizio.
Immensi battelli neri vengono dagli orizzonti
E li sbarcano alla rinfusa sopra i ponti.

Ci son Greci, Spagnoli, si trovano Italiani,
Son Russi, sono Bulgari, son Mongoli, Persiani.
Sono bestie da circo, saltano i meridiani,
Gli gettano un pezzetto di carne nera come ai cani.

All'autore, che rappresenta la “morte di Dio” nel quadro di questa prima mondializzazione, appare chiaro il dominio del capitale finanziario:

Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte
Ove si è coagulato il Sangue della tua morte.

Se sfogliamo le Poesie di Efrem Bartoletti pubblicate dal Comune di Costacciaro, che “micropolis” ha già schedato, scopriamo in un autore autodidatta e proletario la stessa idea. Bartoletti, in America, era arrivato intorno al 1910, da clandestino. Da operaio è militante e dirigente del mitico I.W.W (Industrial Workers of the World), espressione del sindacalismo rivoluzionario, scrive poesie di lotta, che pubblica a New York nel 1919, titolandole Nostalgie Proletarie. La retorica è quella della poesia della rivolta tardo ottocentesca, ma c'è l'intuizione di una realtà nuova, mirabile e mostruosa. Alcune delle poesie rievocano l'Umbria nativa, ma altre più numerose esprimono la protesta ed un sogno di riscatto. Una coppia di sonetti è dedicata, ad esempio, “ai due giganti” Lenin e Trotzkji, paragonati a Bruto e Collatino. Un'altra, intitolata XII Ottobre, immagina il ritorno di Colombo, “bello e grande”, in America, questa volta “ai liti di Manathan”:

De la Babel novella ei così giunge
negli angiporti, tra le folle oscure,
e dove a Creso Moloch si congiunge
in ree congiure.

Vede cozzar miseria ed opulenza,
e l'uom su l'uomo consumar delitti,
e Amore, Pensier libero e Coscienza
fuggir, proscritti.

L'America, nelle poesie del nostro, terra di esuli affamati, di operai abbrutiti dalla fatica, di pallidi e macilenti minatori ( “sepolta gente ... nata a luce spenta”, che “sotterra suda e stenta e, paria invendicato, muor sovente”), ma anche di eroi della rivolta, di proletari, figli del Reno, del Tevere e del Po, del Tamigi, del Danubio, del Volga e della Senna, che suonano la campana dei Vespri e realizzano l'ideale di Carlo Marx nel nuovo mondo (Ai ribelli del Minnesota).
Bartoletti tornò in Italia nel 1920 e, da socialista, fu eletto sindaco a Costacciaro, ma, perseguitato dal fascismo, di nuovo riparò negli USA, terra di conflitti, ma anche di libertà. Scrisse fino agli anni Cinquanta altre poesie in cui continua a condannare il capitalismo e lo sfruttamento d'oltreoceano, ma pure ad esaltare taluni aspetti della libera America. Una è dedicata al presidente Roosevelt, che “frenò gli stimoli... dei voracissimi banchieri ... con briglie federali”. L'analisi socio-politica non è lucidissima, ma il sentimento è autentico.
Abbiamo scelto di parlare del sogno americano usando soprattutto poeti, ma avremmo potuto seguire altri percorsi, parlare dei neri, degli ebrei, del cinema, del jazz, del rock; ne sarebbe comunque scaturito un sentimento ambivalente. È forse il caso di rifletterci. In un tempo in cui siamo pieni di americanissimi, pronti ad esecrare ogni dissenso, ha certamente fatto bene Rossanda a gridare sul manifesto il suo antiamericanismo; ma credo non si sbagli neanche un nostro compagno di lunga storia e memoria che ricorda come dagli USA gli giungesse negli anni cupi del regime un vento di libertà e come, anche dopo, nell'Italia repubblicana e democristiana, “eravamo noi antiamericani i veri filoamericani, quelli che dell'America amavano la letteratura, i film, la musica, la ricerca teorica”.
L'America è diventata nel corso del Novecento il cuore di un modo di produrre e di vivere, il centro di un impero che produce insieme ricchezza e miseria, oppressione e libertà, lo specchio di una contraddizione che la storia non ha ancora risolta. È certo che noi internazionalisti non parteciperemo mai agli USA Day , che non sventoleremo mai bandiere a stelle strisce per salutare con entusiasmo guerre e bombardamenti. Non amiamo le bandiere, neanche il tricolore italiano, specie se diventa arma di quelli che Efrem Bartoletti chiamava i “lustrapatria”. Ma non c'è solo l'America dei generali e delle multinazionali, c'è quella del meticciato, della protesta radicale e delle libertà che rimane nei nostri cuori, nelle nostre menti e nelle nostre biblioteche. Possiamo anche portarla alle manifestazioni, se ce ne viene voglia.

"micropolis", novembre 2001

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