4.4.19

Sartre negli anni di guerra. Il processo postumo a uno scrittore che resisteva (Michel Contat)


Ci fu un momento, sul finire del secolo scorso, di gran fervore revisionistico, in cui in Francia si intentò una sorta di processo postumo a Jean-Paul Sartre. “Il manifesto”, in quegli anni, fu una delle poche voci, in Italia ad informare di questo clima d'oltralpe e a tentare di leggerne il significato. L'articolo che segue venne pubblicato nel supplemento libri del “quotidiano comunista”, ma si tratta della traduzione di un pezzo già apparso su “Le Monde”. Il libro di cui qui si discorre fu uno dei momenti di uno scandalismo basato sul nulla. (S.L.L.)



Il libro di Joseph Gilbert (Une si douce occupation. Simone de Beauvoir et Jean-Paul Sartre 1940-1944, Albin Michel, Parigi, 1991) presentato come «storico e romanziere», è un fenomeno editoriale deprimente per quel che indica sul costume del nostro tempo. Che si sia trovato un grande editore per pubblicare tale miseria, con la scusa che il libro era stato commissionato come biografia della coppia Sartre-Beauvoir, dimostra perlomeno che il commercio l’ha decisamente avuta vinta sull’intelligenza, persino in una casa editrice che pubblica dei premi Nobel.
A Gilbert Joseph non piace Sartre e tantomeno Beauvoir, come non gli piacciono Camus e Malraux; solo Valéry lo stimola. Ne ha tutto il diritto. Della loro opera non capisce niente. Questo del resto non è un suo privilegio. Li rimprovera di aver vissuto da letterati sotto l’occupazione tedesca e di aver indossato, dopo la Liberazione, l’abito dei resistenti. Quest’accusa si può intentare; ma ci vuole, per istruire il processo, un minimo di buona fede. E dare la parola agli accusati, non soltanto agli accusatori.
Il metodo di storico di Joseph è spietato: consiste nel tener conto solo delle testimonianze ostili a Sartre e Beauvoir, e nel ricordare di quanto hanno scritto gli accusati solo ciò che parla contro di loro; se i documenti mancano, l’assenza diventa un elemento di sospetto. Così l’autore ha incontrato dei vecchi compagni di prigionia di Sartre che non lo amano, intellettuali che, nel campo di prigionia, si erano sentiti trattati sdegnosamente dal «normalista» Sartre e gliene vogliono ancora per ciò che lui è diventato più tardi. L’autore si identifica con loro e li cita abbondantemente. Sospetta che sia offuscato dalla simpatia persino il libro dell’abate Perrin, che ha raccontato la sua esperienza con Sartre in prigionia. Esempio: Sartre non è evaso ma è stato liberato grazie a un falso che lo faceva passare per civile, colpito da turbe dell’equilibrio. Joseph scrive: «ignoriamo come sia andata questa visita (medica)». Evidentemente lui non c’era. Però non presta ascolto alle testimonianze di Marius Perrin e a quella di Sartre stesso, riferita da Simone de Beauvoir.
Poiché è andato perduto il fascicolo di Sartre al Ministero della pubblica istruzione, Joseph afferma senza prove né testimonianze che Sartre nel ’41 firmò la dichiarazione, obbligatoria per i professori, di non essere né ebreo né massone, e rifiuta come una menzogna quello che Sartre ha dichiarato: che egli non la dovette firmare al ritorno dalla prigionia. Joseph cita come un’impostura ciò che si legge nella scheda biografica riempita nel ’62 da Sartre per l’adesione alla Società dei letterali; «Prende parte attiva alla Resistenza e alle barricate di Parigi». Ma non cita la frase con la quale Sartre ha riassunto, e retrospettivamente biasimato, il proprio atteggiamento: «Durante l’occupazione ero uno scrittore che resisteva, e non un resistente che scriveva».
Né cita la frase famosa della «Repubblica del silenzio»: «io non parlo di quella élite costituita dai veri resistenti, ma di tutti i francesi che, a ogni ora del giorno e della notte, per quattro anni hanno detto no» (Situations III). Nello stesso volume Joseph non sembra aver letto nemmeno l’articolo Parigi sotto l’occupazione, in cui Sartre tentava di spiegare le ambiguità della vita quotidiana nella capitale in mano ai tedeschi a lettori che non le avevano vissute: “Così vivevamo, nel peggiore smarrimento, infelici senza osare dircelo, vergognosi e disgustati della vergogna. Per colmo di infelicità non potevamo fare un passo né mangiare, né respirare senza renderci complici dell’occupante». Non viene in mente a Joseph che è per una sorta di rimorso di non aver detto «no» con i fatti piuttosto che con gli scritti che Sartre si è lasciato intimidire, dopo la guerra, dal «partito dei fucilati», come Jankélévitch aveva ben visto e come lui stesso sapeva.
Ma Joseph non vuol fare l’intellettuale, va alla ricerca di fatti; non infieriamo. Dopo aver spulciato i rapporti di una causa contro Simone de Beauvoir per sottrazione di minore che portarono a un non-luogo a procedere Joseph scrive: «Simone de Beauvoir e i suoi si erano presi gioco della polizia». La polizia in questione era quella di Vichy. Quanto ai fatti, ora sappiamo dalle lettere di Beauvoir che non corrispondevano alle sue dichiarazioni al commissario incaricato dell’inchiesta. Joseph ha un’evidente inclinazione per la Buon costume.
Ascoltiamolo a proposito de Le mosche. «I personaggi di Sartre sono piatti, inefficaci. La loro azione è prederminata dal fato antico e non dal libero arbitrio. Sono chiacchieroni, dogmatici, limitati. Mancano a Sartre i mezzi d’espressione adeguati». Qui e ovunque si tratti di idee e di letteratura Joseph appare dolorosamente disarmato. E infine, nel libro, è proprio questo che infastidisce di più: che qualcuno abbia potuto passare tante ore, darsi tanto da fare a raccogliere documenti e testimonianze per tentare di squalificare, attraverso l’uomo e la sua compagna, un’opera che gli passa visibilmente sopra la testa. Se si trattasse di un libro pubblicato a spese del’autore, la cosa sarebbe soltanto pietosa. Diventa volgare quando solo la morte di Sartre, la sua fama e il processo politico di cui egli è oggi oggetto inducono un editore a diffondere un’opera misera e piena d’odio. L’editoria ha davvero un bel futuro davanti a sé, se si dedicherà a istruire il processo a tutti i nostri grandi scrittori che non sono stati fucilati a Mont-Valerien.

“il manifesto – la talpa”, per gentile autorizzazione di Le Monde, 6 dicembre 1991

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