7.4.19

Sicilia letteraria. È finito il cliché di “sante e buttane” (Tea Ranno)


Tea Ranno, di Melilli (Siracusa), vinse nel 2005 con Cenere il prestigioso Premio Italo Calvino e si è rivelata, anche con i romanzi successivi, scrittrice di grande forza espressiva. Il suo narrare è quasi sempre centrato su figure di donne, ma la riflessione che segue non riguarda solo il suo lavoro, ma tutta la nuova narrativa siciliana, non esclusivamente femminile e non escluso il grande, popolare e un po' seriale Camilleri. (S.L.L.)

Sono tante le protagoniste dei romanzi che si sono scavate una nicchia nella mia mente per abitarvi senza possibilità di sfratto. Alcune di queste sono le donne raccontate dagli scrittori siciliani di cui leggevo quand’ero adolescente, e che proprio in quel periodo sono diventate parte di me: le capivo, non mi era difficile collocarle nell’ambiente in cui si muovevano – stessa mia terra, sole, mare, odori, lingua –, né mi era difficile riconoscerle come tipi: le vecchie avvolte negli scialli, le ragazze sottomesse ai padri, le mogli soggette ai mariti, le scostumate che facevano una mala fine, le zitelle acide, le povere che diventavano ricche, le femmine allupate, le pettegole sfascia famiglie. Tipi messi in scena da Verga, Sciascia, Pirandello, Vittorini, De Roberto, Patti, D’Arrigo… Scrittori amatissimi che rappresentavano nelle loro pagine la tipologia femminile che mi vedevo vivere intorno e che – ancora troppo piccola – non capivo nelle sue peculiarità.
Una tipologia, appunto. Che cominciò a sgretolarsi nel momento in cui, lasciata l’adolescenza, mi ritrovai nel corpo, nei pensieri e nelle emozioni di una donna. E, soprattutto, quando mi avventurai dentro le pagine di donne che raccontavano le donne. Fu allora che avvertii sempre più forte l’impressione che le eroine create da quegli scrittori indossassero non vesti tagliate e cucite loro addosso da sarti di pregio, ma abiti standard, presi a stock nei grandi magazzini e adattati, di volta in volta, al personaggio.
Non solo, leggendo e rileggendo, mi parve che fossero standard anche gli stampi in cui veniva colata la sostanza che componeva quelle donne. Due stampi: la santa (moglie, madre, sorella, figlia) e la buttana (la moglie, la madre, la figlia, la sorella degli altri). Naturalmente, poi, ogni scrittore, forte della propria sensibilità e della propria penna, riusciva a creare le giuste alchimie perché il personaggio fosse credibile. E ci riusciva, certo, tanto che quelle Angelica, Bianca, gnà Pina, Nedda, Marta, Cata, Maruzza e via discorrendo, si sono incise nella mia memoria. Un taglia e cuci che si perdeva le sottigliezze psicologiche, le emozioni che non fossero slanci uterini, le reazioni che non fossero botte d’isteria, i dolori che non fossero patetici, le dolenti che non fossero prefiche, le madri che non fossero disposte a darsi in pasto alle belve pur di salvare i figli.
Ma torniamo agli stampi: sante o buttane, dunque, le femmine siciliane? In queste poche righe tratte da La Lupa di Verga, se ne potrebbe trovare un esempio: “Le donne – le sante – si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella – la buttana – si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso”.
Le buttane sono lupe fameliche, le sante sono mogli e madri con la corona del rosario in mano. Ma pure le sante possono – nel gioco a vestire o svestire gli abiti di scena – cambiarsi in lupe. Consideriamo Luisa, la vedova Roscio di cui ci racconta Sciascia in A ciascuno il suo. È nipote d’arciprete, è bella – “il volto in cui le labbra disegnavano broncio ed offerta, la massa dei capelli, il profumo che appena velava un afrore di letto” –, è una santa femmina che tuttavia, come ci avverte l’autore, incarna il male “nel suo farsi oscuramente e splendidamente sesso”: sarà lei, infatti, la lupa che sbranerà quel professor Laurana così caparbiamente intento a risolvere l’assassinio del dottore da rimetterci la pelle.
Dunque il sesso come male, che giustifica la dicotomia: santa (buona), buttana (cattiva). Non è un caso, dunque, che a una processione di femmine immolate sull’altare della famiglia, della convenienza e dell’onore, si affianchi il corteo di lussuriose che portano alla rovina varie stirpi d’uomini: Nino concupito da sua zia Cettina (Un bellissimo novembre di Ercole Patti), i marinai della Regia Marina sedotti dalle femminote che commerciano in sale e piacere a bordo dei ferribò (Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo), solo per citarne un paio.
E adesso? Rotti gli stampi? Scuciti i vestiti standard? Recuperata la libertà di essere donne a tutto tondo che si esprimono nella voluttà e nella trascendenza, nell’intimità come in piazza o davanti ai fornelli, o con le dita sulla tastiera di un computer? Sì. Le donne che abitano i romanzi – scritti dagli uomini (uno per tutti: Camilleri) o dalle donne siciliani – sono polimorfe, camaleontiche, più simili a quella complessità di carattere che nessuno stereotipo può ormai semplificare, e più vicine a quella verità che le rende vive e non marionette con la faccia pittata che un cambio d’abito trasforma in sé o nel contrario di sé.

il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2019

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