18.5.19

Perché i teologi non capirono Galileo. Un articolo del teorico delle particelle Nicola Cabibbo (1935 - 2009)

Nicola Cabibbo

Nicola Cabibbo (1935-2010) fu uno scienziato italiano che, a cavallo tra secolo XX e XXI, diede un contributo importante alla “fisica delle particelle”. Cattolico e, per un certo periodo, presidente dell'Accademia Pontificia delle Scienze, si occupò più volte del rapporto tra scienza e fede ed in particolare fu attratto dal “caso Galileo”, anche in relazione della cosiddetta “riabilitazione” che in quegli anni la Chiesa Cattolica, su impulso del papa polacco Karol Wojtila, promuoveva.
L'articolo che segue, pubblicato quasi esattamente 10 anni fa sul “Corriere”, è secondo me reticente sulle questioni della libertà di pensiero, su cui la Chiesa non ha ancora fatto passi avanti decisivi: non a caso alle “scuse” sul caso Galilei corrispondono imbarazzi e silenzi sul caso di Giordano Bruno, che quella libertà con più fervore e coerenza rivendicò.
Ciò detto il testo mi pare molto interessante e formula ipotesi di lavoro, che - da “orecchiante” curioso senza specifiche competenze – mi piacerebbe veder approfondite. La prima mi pare la sottolineatura del carattere complessivamente “filosofico” dell'avventura intellettuale galileiana; la seconda l'indicazione delle basi filosofiche della persecuzione dei teologi contro Galileo (matematica pitagorica e atomismo v/s formalismo aristotelico). In ogni caso una lettura stimolante. (S.L.L.)

Quando nel 1610 si spostò da Padova a Firenze presso la corte dei Medici, Galilei insisté per ricevere il titolo di “Filosofo e Matematico primario” del Granduca. Non solo Matematico, come Keplero presso la corte imperiale di Praga, ma anche e anzitutto Filosofo. Questa richiesta è fondamentale per capire la vastità del progetto galileiano: una scienza che non si accontenta di esplorare e descrivere fenomeni ma aspira a una comprensione totalizzante della natura. Un tale programma diviene necessariamente una filosofia; alla sua base il famoso passo de Il saggiatore (Feltrinelli) in cui Galilei afferma che il grande libro della natura è scritto in caratteri matematici. È dalla matematica che bisogna ripartire per capire il mondo.
Gli sviluppi della scienza e delle tecniche, rappresentati da scienziati come Nicola Copernico o William Gilbert, o dai grandi scienziati- artisti-ingegneri del Rinascimento italiano, da Leonardo a Guidobaldo del Monte, non potevano essere inquadrati nella filosofia allora dominante, quella di Aristotele. In Aristotele la natura era descritta in termini di «forma» e «sostanza», concetti che non permettono di andare oltre una discussione puramente qualitativa dei fenomeni naturali. Il passaggio dal qualitativo al quantitativo richiedeva una filosofia diversa, quella di Pitagora, secondo cui tutto è numero.
Ancora oggi l’innegabile successo della descrizione matematica della natura è fonte di meraviglia. Quando nel 1960 Eugene Wigner, uno dei padri della meccanica quantistica, scrisse un saggio, ormai divenuto un classico, sulla Irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali dovette concludere che «we do not know why our theories work so well», non sappiamo perché la matematica funzioni così bene.
La nuova filosofia della natura si scontrava quindi con quella dominante, ma anche con il pensiero teologico che, tramite la scolastica, proprio nella filosofia di Aristotele aveva trovato le sue fondamenta razionali.
Essere contro Aristotele nel Seicento era estremamente rischioso. Come sappiamo, lo scontro portò alla messa all’indice delle opere di Copernico nel 1616 e al processo contro Galilei del 1633. Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche che si trasformava necessariamente in filosofia della natura aveva gettato un forte sospetto di eresia su Galileo e i suoi seguaci. Alla Chiesa mancò all’inizio del Seicento una personalità del calibro intellettuale di un Tommaso d’Aquino, che sapesse valutare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza, a cominciare dalle scoperte astronomiche di Galilei del 1609. Fondamento del metodo di Galilei è un’immagine del funzionamento della natura in cui inquadrare i fenomeni particolari. Galilei è atomista convinto, vede tutta la materia come composta da particelle che si muovono nel vuoto, e questa immagine del mondo guida la sua ricerca. L’atomismo fa da sfondo agli studi sul galleggiamento, è centrale ne Il saggiatore, e ispira la discussione della resistenza dei materiali nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze del 1637. Non soltanto il pitagorismo, anche l’atomismo si scontra con Aristotele.
Come ha dimostrato Pietro Redondi, nel suo Galileo eretico (Einaudi), l’atomismo di Galilei giocò un ruolo non indifferente dietro le quinte del processo del 1633. Galilei era convinto che tutta la materia, sia sulla terra che nei corpi celesti, obbedisce alle stesse leggi. E questa convinzione, confermata dalle sue scoperte astronomiche, lo aveva portato al sistema copernicano, secondo cui la terra gira intorno al sole e ruota su se stessa.
Un elemento essenziale del metodo di Galilei consiste nel semplificare al massimo i fenomeni che si desidera studiare, sfrondandoli per quanto possibile da effetti secondari che oscurano il risultato cercato.
Per studiare la legge che regola il moto dei corpi conviene concentrarsi su oggetti pesanti, meno influenzati dalla resistenza dell’aria. E poi conviene rallentare la velocità della caduta, studiando il rotolamento su un piano inclinato. L’ultimo passo consiste nello studiare il moto di un pendolo, che elimina l’attrito.
Affrontando lo stesso problema da più punti di vista, in condizioni sperimentali diverse — il moto di un proiettile, il rotolamento su un piano inclinato, il pendolo — Galilei arriva a isolare il cuore del fenomeno, a determinare le leggi del moto. I Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze contengono alcuni bellissimi esempi di esperimenti mentali. Si tratta di uno strumento del tutto originale, che è forse il massimo contributo di Galilei allo sviluppo delle scienze: immaginare un esperimento, anche se non facilmente realizzabile, il cui risultato è tuttavia evidente. Un esempio tra tanti: se un oggetto si muove verso il basso, il suo moto è accelerato, se si muove verso l’alto il moto è ritardato, quindi Galileo può affermare che su un piano orizzontale l’oggetto non sarebbe né accelerato né ritardato, ma si muoverebbe a velocità costante. Tanto evidente è questa conclusione che non è necessario eseguire l’esperimento. Anzi l’esperimento non riuscirebbe perché non è possibile eliminare del tutto l’attrito, ma la conclusione resta.
Esperimenti mentali di questo tipo sono alla base della scoperta della gravitazione universale di Newton — la Luna cade come una mela? — o della teoria della gravità di Einstein — che cosa succede in un ascensore in caduta libera?
La fertilità del lavoro di Galileo per lo sviluppo delle scienze è impressionante, e si sviluppa già nei decenni successivi alla sua scomparsa. Nelle ricerche di Galilei troviamo i semi della scoperta del barometro di Torricelli, o della legge della gravitazione universale di Newton.
Intorno al 1675 Giovanni Cassini e il danese Ole Rømer, che studiavano un metodo proposto da Galilei per la determinazione della longitudine, osservarono delle irregolarità nel periodo di rotazione dei satelliti di Giove. Ottennero così la prima misura della velocità della luce, rispondendo a una precisa domanda posta da Galilei nei Discorsi. È conoscendo la velocità della luce che James Bradley, studiando l’aberrazione stellare, un piccolo spostamento della posizione apparente delle stelle, poté trovare nel 1729 una dimostrazione del moto della terra intorno al sole, quella dimostrazione che Galilei aveva inutilmente cercato cent’anni prima.

“Corriere della sera”, 23 maggio 2009

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