16.6.19

Emigrazione e letteratura. La prefazione di Leonardo Sciascia a “tutti dicono Germania Germania” di Stefano Vilardo

Negli anni della contestazione (68 e dintorni) non mancarono i tentativi di dare voce attraverso la sociologia e la letteratura a settori delle classi subalterne che l'antico verismo e lo stesso neorealismo avevano trascurato: gli operai della fabbrica moderna, per esempio, o i migranti. Uno di questi esperimenti di frontiera lo tentò, secondo me con successo, mettendo in versi i racconti di vita dei suoi compaesani emigrati, Stefano Vilardo, un maestro elementare di Delia (Cl), che alle magistrali di Caltanissetta – grazie ad una bocciatura poi considerata provvidenziale - era stato compagno di banco e amico intimo di Sciascia (vedi il suo A scuola con Leonardo Sciascia, Sellerio 2012). Quella che segue è la prefazione che lo scrittore di Racalmuto scrisse per la prima edizione in volume delle "poesie sell'emigrazione" composte da Vilardo. (S.L.L.)


«Prima della Rivoluzione francese» — annotava Gramsci — «prima cioè che si costituisse organicamente una classe dirigente nazionale, c’era un’emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo. Dopo la formazione di una borghesia nazionale e dopo l’avvento del capitalismo si è iniziata l’emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il plus-valore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della classe dirigente ha così sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina nazionale al popolo, non l’ha fatto uscire dal municipalismo per una unità superiore, non ha creato una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna». Sempre così negativamente operando, la classe dirigente italiana si è data, dopo l’Unità, a un recupero di tipo sciovinistico delle glorie italiane in terra straniera, cioè di quegli elementi che nel campo delle invenzioni, delle scoperte, dell’arte militare avevano contribuito alla grandezza e ricchezza di altri Stati: e resta esemplare la questione sull’italianità di Colombo, che ha dato luogo a tutta una letteratura che Gramsci definisce « completamente inutile e oziosa ». Ma un tale chauvinisme, praticato a livello di un certo giornalismo, di una certa erudizione, aveva in effetti una funzione: la classe dirigente nazionale lo dava come una specie di viatico — il solo che fosse capace di dare — al popolo lavoratore che massicciamente emigrava. Già Cesare Balbo aveva auspicato « una storia intiera e magnifica e peculiare all’Italia » degli italiani, dei grandi italiani, fuori d’Italia; e proprio nel momento in cui una delle più grosse ondate di emigrazione dall’Italia si riversava sulle Americhe, sugli Stati Uniti e sull’Argentina in prevalenza, usciva un Dizionario degli italiani all’estero che partiva dall’anno 1000. Con lo stesso criterio, negli anni del fascismo si inaugurava — suggerita da Gioacchino Volpe — una pubblicazione in più volumi su L’opera del Genio italiano all’estero', ufficiale, governativa. La classe dirigente italiana, e la cultura che la rappresentava, era talmente occupata a cercare le orme del genio (Genio) italiano in terra straniera, dall’anno 1000 alla Rivoluzione francese, che non si accorgeva delle centinaia di migliaia di italiani che, bestialmente stivate, continuavano a lasciare le itale sponde. Non voleva accorgersene, cioè; non voleva curarsene. Erano italiani senza genio (Genio): sapevano soltanto lavorare con le braccia, e duramente. In altro luogo Gramsci osserverà: e perché questa classe dirigente, la sua cultura, la sua letteratura, dovrebbe occuparsene quando sono all’estero, dei lavoratori italiani, se nemmeno se ne occupa quando sono in Italia?
Ma in Italia, bene o male, paternalisticamente o meno, tra scapigliatura e verismo, il popolo lavoratore era entrato nella letteratura. Riguardo all’emigrazione, era però tutt’altro affare. E valga l’ironica osservazione che Dominique Fernandez fa a proposito dei Malavoglia'.
«Il maggiore dei Malavoglia, sin dal tempo in cui è ancora un bravo ragazzino e sta alla larga dalle osterie, si mette in testa di lasciare Acitrezza e tentare fortuna altrove. L’autore, lungi dall’incoraggiarlo in questa sana decisione, l’accusa di voler abbreviare i giorni a sua madre, di abbandonare alla deriva i suoi fratellini, di infischiarsi del focolare domestico, e infine d’essere un ambizioso, un pretenzioso, che sarà punito per aver disprezzato l’onorevole miseria di cui i Malavoglia si sono sempre accontentati... I Malavoglia apparvero nel 1881. Ebbene, in quello stesso anno, l’Europa mandava 85.000 emigranti in America; tre anni dopo 200.000; nel 1900 l’Italia, da sola, 200.000, di cui circa una metà siciliani... ».
Fernandez chiama quella di Verga «une bévue historique de taille», una grossa cantonata storica. E non il solo Verga l’ha presa. Non c’è nella letteratura italiana, infatti, un solo libro che rappresenti la condizione degli emigranti per come è stata, per come è. Solo in questi ultimi anni abbiamo avuto dei documenti diciamo ricreati: le lettere di un emigrante pubblicate da Antonio Castelli in Entromondo, queste storie messe in versi da Stefano Vilardo.
Vilardo è nato a Delia, in provincia di Caltanissetta, e a Delia è vissuto per tanti anni, insegnando nelle scuole elementari. Poeta, per così dire, in proprio (un paio di volumetti pubblicati in edizione limitata: poesie di idillio, poesie d’amore), ad un certo punto si è dato a raccogliere e ricreare queste storie (alcune ne ha pubblicate sul numero 15, luglio-settembre 1969, di “Nuovi argomenti”. E non è stata un’operazione facile. Per quanto, leggendole, non sembri, la mediazione del poeta c’è stata. La ricreazione, appunto. E che non sembri, è il maggior merito di questo libretto.

in Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell'emigrazione, Garzanti, 1975

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