6.6.19

Ereditarietà, pangenesi e gemmule. Lo sguardo lungo di Charles Darwin (Manuela Monti - Carlo Alberto Redi)

Charles Darwin

La storia dell’umanità è segnata indelebilmente da molte scoperte e invenzioni. Tra queste: il fuoco, la ruota e la teoria dell’evoluzione (forse ora dovremo aggiungere lo smartphone, vedremo...). E così, le nostre attuali conoscenze poggiano sulle spalle di alcuni giganti tra i quali spiccano Gregor Mendel e Charles Darwin. Come ben sappiamo, il primo ha riconosciuto le regole fondamentali della trasmissione dei caratteri in un’epoca in cui le basi fisiche sulle quali poggia tutta la teoria mendeliana erano ignote: geni, Dna e cromosomi (un inno alle ricerche mosse dalla curiosità); il secondo ha spiegato quali sono i meccanismi e i fattori capaci di promuovere l’evoluzione delle specie (anche l’opera di Darwin è essenzialmente basata su intuizioni teoriche). La fama riconosciuta a quest’ultima teoria (messaggio per i detrattori della teoria darwiniana: teoria non vuole dire fantasia, un’idea si basa, nel medesimo tempo, su una teoria e su dei fatti) ha però oscurato un’altra geniale intuizione di Darwin per la quale ricorre quest’anno il centocinquantesimo anniversario: la teoria della Pangenesi, formulata nel 1868 come un’«ipotesi provvisoria» in calce a un’opera in due volumi intitolata Le variazioni degli animali e delle piante nel corso della domesticazione.
L’esigenza teorica di Darwin è quella di dare un senso compiuto alla teoria sull’evoluzione delle specie spiegando attraverso quali meccanismi potesse realizzarsi uno dei fenomeni di rilievo della teoria stessa: la trasmissione delle variazioni dei caratteri ereditari acquisiti nel corso della vita di un individuo. Per Darwin, la teoria della Pangenesi è una «ipotesi provvisoria» poiché sa di non disporre delle sottili conoscenze citologiche necessarie a dare corpo a questo fantasma: e qui si rivela un’altra dote di questo genio, la cautela. Suggerisce che il meccanismo attraverso il quale i caratteri che si modificano nel corso della vita di un individuo passano alla progenie, si basi sulla produzione ed emissione di minuscole «gemmule» da parte delle cellule; queste gemmule, contenenti informazioni del vissuto biologico della cellula che le ha prodotte, circolano liberamente nel sangue e in tutto l’organismo accumulandosi nelle gonadi. Nel corso della riproduzione, spermatozoi e uova trasmettono alla progenie il contenuto delle gemmule.
Il termine Pangenesi (dal greco pan: tutto) deriva dal meccanismo proposto; le gemmule sono prodotte da tutte le cellule dell’organismo finendo poi per accumularsi nelle cellule germinali. Le cellule che vanno formandosi per moltiplicazione nel corso della riproduzione riassorbono le gemmule (che così ne marcano le proprietà) trasmettendo alla progenie i caratteri acquisiti dai genitori nel corso della loro vita.
La cautela di Darwin nel proporre questa ipotesi è famosa. Viene difatti illustrata in appendice al secondo e ultimo volume dell’opera e nella sua autobiografia, tenendo a sottolineare che la sua «denigrata ipotesi della Pangenesi» ha uno scarso valore poiché non dimostrata. Tuttavia si augura che in futuro «qualcuno sarà condotto a fare osservazioni che possano dar fondamento a qualche ipotesi di questo genere» così che «un’enorme quantità di fatti isolati potranno essere l’un l’altro collegati e diventeranno comprensibili».
Darwin, al tempo della proposta, era impegnato a difendere la teoria sull’evoluzione delle specie cercando di fornire spiegazioni cellulari e molecolari sui meccanismi sottesi all’ereditarietà (non conosceva i lavori di Mendel, la comunità scientifica dovrà attendere l’inizio del nuovo secolo per riscoprire le «leggi di Mendel») e sulle fonti delle variazioni sulle quali agisce la selezione naturale.
La teoria della Pangenesi è stata fortemente criticata e poi abbandonata per diverse ragioni, la più evidente è che delle ipotizzate gemmule non si trovava traccia. Già Darwin aveva premesso che con gli strumenti dell’epoca non sarebbe stato possibile vederle «perché inconcepibilmente piccole sebbene numerose come le stelle nel cielo e contenute in ciascuna cellula, spermatozoo e ovulo»; in assenza di dati sperimentali che la sostenessero fu considerata una «pura invenzione» dai più grandi biologi dell’epoca, August Weismann (paradossalmente uno dei maggiori sostenitori della teoria dell’evoluzione di Darwin) tra i primi.
Il più benevolo dei critici fu il cugino di Darwin, Francis Galton, che concluse con un lapidario «...nel sangue non si trovano... le gemmule» gli esperimenti effettuati per cambiare il colore della pelliccia di conigli bianchi tramite trasfusioni di sangue da conigli con la pelliccia nera.
È bene sottolineare che la teoria della Pangenesi prevede un passaggio di informazioni genetiche (le gemmule) da cellule del soma a quelle germinali: il suo rifiuto portò al definitivo affermarsi dell’idea che l’informazione genetica venga trasmessa solamente dalle cellule germinali a quelle somatiche, e non viceversa.
L’idea che caratteristiche acquisite dall’organismo in risposta a stimoli ambientali possano essere trasferite dai genitori alla progenie ha le sue radici nella filosofia di Ippocrate ma divenne famosa grazie alla teoria sull’evoluzione delle specie per uso/non-uso degli organi di quell’altro genio ribelle (se ne legga la biografia) di Jean-Baptiste Lamarck. Per molti autori la proposta della Pangenesi rifletteva, paradossalmente, una visione lamarckiana del processo evolutivo da parte di Darwin. Nel corso dell’anniversario della formulazione della teoria della Pangenesi dobbiamo ricordare che le più avanzate conoscenze di biologia cellulare e molecolare sulla comunicazione tra cellule mettono in luce l’esistenza di minute vescicole extra-cellulari chiamate esosomi (van Niel et al., 2018) che a pieno titolo possiamo considerare la versione moderna delle, ipotetiche, gemmule.
La possibilità che l’ambiente induca le cellule somatiche a produrre gemmule (esosomi) la cui composizione dipende dalla natura degli stimoli ambientali a cui le cellule sono esposte, è una potente e visionaria intuizione di Darwin: geniale. La composizione degli esosomi (proteine e Rna) riflette infatti quella del citoplasma delle cellule da cui si formano e vengono rilasciati. Sono dunque veicolo di informazione genetica tra cellule somatiche e tra cellule somatiche e cellule germinali (Zhang et al., 2018) e costituiscono uno dei meccanismi responsabili dell’ereditarietà dei caratteri per via epigenetica, portando nel genoma dello zigote piccoli frammenti di Rna di svariata natura o proteine regolatrici dell’espressione di specifici geni; in altri termini contribuiscono alla trasmissione intergenerazionale dei caratteri acquisiti per azione dell’ambiente (si veda anche «la Lettura», 5 febbraio 2017).
Sempre più chiare sono le evidenze sperimentali che sostengono l’idea di una trasmissione intergenerazionale di caratteristiche acquisite nel corso della vita dei genitori basate sull’azione della composizione degli esosomi. La trasmissione paterna dei disordini metabolici è uno dei tanti esempi: evidenze sperimentali in topi maschi nutriti con diete a basso contenuto proteico dimostrano come le cellule dell’epididimo (cellule somatiche) dove transitano gli spermatozoi siano capaci di passare piccoli frammenti di Rna a significato regolatorio negli spermatozoi che così vengono veicolati nella cellula uovo e quindi al nuovo individuo determinando in questo modo la trasmissione ereditaria di effetti prodotti dalla dieta paterna (Sharma et al., 2016).
È bene precisare che l’ereditarietà delle caratteristiche acquisite nel corso di adattamenti all’esposizione a xenobionti ambientali di varia natura (contenuti in aria, acqua, cibo) e a stress emotivi, si basa sulle modificazioni epigenetiche del Dna e delle proteine che lo avvolgono (metilazione di Dna e proteine, acetilazione di proteine, eccetera), modificazioni che sono reversibili non interessando la sequenza (primaria) del Dna.
Alla luce della teoria della Pangenesi e della trasmissione epigenetica di caratteristiche ereditarie, divengono del tutto comprensibili gli effetti prodotti sugli individui esposti a condizioni ambientali estreme: ad esempio, le persone concepite nel corso della carestia imposta dai nazisti nell’inverno del 1944-1945 alla popolazione di Amsterdam (evidenza dell’impatto dell’esposizione intrauterina alla malnutrizione) e i figli dei sopravvissuti dell’Olocausto (evidenza degli effetti transgenerazionali degli stress emotivi). In entrambi i casi è stato possibile dimostrare modificazioni significative di alcune regioni del Dna (differente grado di metilazione e dunque differente espressione della regione genica coinvolta) nella progenie degli individui esposti e che coinvolgono il recettore dell’insulina nel primo caso (spiegando così l’alta incidenza di diabete in questi individui) e alcune varianti del gene Fkbp5 la cui espressione è associata a condizioni patologiche dovute a post-traumatic stress disorder (ansia, depressione, disturbi psichiatrici, eccetera) nel secondo.
La Storia (...ma anche la letteratura lo dice, si pensi ad Alice nel paese delle Meraviglie!) insegna che credere in qualche cosa che non si vede e non si riesce a dimostrare è, a volte, corretto e che la mancanza di dati non è prova di assenza di significato di un’ipotesi. La Pangenesi oggi può essere considerata come la cornice concettuale del passaggio di informazioni ereditarie tra cellule e anche tra diverse specie di diversi regni ricordando il trasporto esosomiale di piccole molecole di Rna tra piante e funghi: ancora una volta quel genio di zio Charles aveva visto lungo, buon compleanno alla Pangenesi molecolare!

“La Lettura - Corriere della sera”, 2 dicembre 2018

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