6.6.19

Lawrence Ferlinghetti: «Io mai stato Beat. Il più grande? Pasolini». Intervista di Massimo Gaggi



I cento anni un mitico editore e poeta. 
Che qui parla di Brooklyn, 
di Allen Ginsberg, 
dei pesci bretoni di Jack Kerouac.

da New York
«Sono molto sorpreso, davvero: non mi aspettavo tutti questi riconoscimenti». C’è gioiosa meraviglia nella voce di Lawrence Ferlinghetti che mi arriva da San Francisco, ma anche un’enorme stanchezza. Nell’arco di pochi giorni la pubblicazione in America — in uscita martedì presso Penguin Random House — del suo «libro definitivo», Little Boy (ampiamente anticipato nei passi principali da «la Lettura» del «Corriere» il 2 dicembre scorso), le cento candeline da spegnere il 24 marzo, le richieste d’interviste da tutto il mondo, e le celebrazioni: le letture pubbliche di sue poesie, l’inaugurazione della mostra Lawrence d’Italia in programma martedì all’Istituto italiano di cultura di San Francisco diretto da Annamaria Di Giorgio, i raduni di amici alla City Lights, la libreria da lui fondata che fu anche sede della sua casa editrice, motore culturale della Beat Generation. Che, come racconta in questa intervista, lui ha vissuto nella sua beatitude, pur non essendo mai stato un beatnik.
E poi, lunedì 18 marzo a North Beach, il suo quartiere, la cerimonia dell’albero — un ulivo della pace — che verrà piantato dal sindaco di San Francisco, dal console italiano Lorenzo Ortona e dagli altri esponenti della cultura della città di fronte alla via che prenderà il suo nome. Il 24 marzo diventerà per sempre «Ferlinghetti Day», una giornata di feste culturali in allegria, carnevalesche, come le performance dissacranti e spensierate che Lawrence ha disseminato lungo tutta la sua vita artistica.
«San Francisco è il posto giusto», dice. È la città che settanta anni fa adottò un ragazzo che aveva già visto e sofferto tutto: da un’infanzia senza genitori (il padre, bresciano, morto prima della sua nascita, la madre franco-portoghese che lo diede in adozione non riuscendo a mantenere cinque figli) fino agli orrori della guerra. In Normandia il D-Day, marinaio nello sbarco degli Alleati. E poi nelle vie di Nagasaki, che descriverà come l’Inferno sulla Terra, sette settimane dopo l’esplosione dell’atomica.
«Questa città è il posto giusto — aggiunge Ferlinghetti — fin dal suo nome, quello di Francesco d’Assisi: un poeta anarchico al quale è poi capitato anche di diventare santo».
Lawrence il 18 marzo non ci sarà: di lui parlerà Mauro Aprile Zanetti, l’intellettuale italiano trapiantato in California che da anni si divide tra il suo lavoro di chief evangelist di aziende dell’intelligenza artificiale (con l’ambizione di umanizzare la tecnologia) e le tante ore passate con l’ultimo grande protagonista della controcultura americana del Novecento.
«Mauro è il mio folletto» dice Ferlinghetti in questa breve e faticosa intervista. «Un folletto con le ali ai piedi, tutto cuore e primavera: per questo si chiama Aprile». Mauro è seduto in fondo al letto e scrive tutto sul suo Macintosh. Le risposte al telefono e le cose che il poeta dirà quando la conversazione si interrompe.
Attivissimo fino a un paio d’anni fa, protagonista per decenni della cultura con le sue performance irriverenti, sempre fuori da ogni schema, Lawrence non esce di casa da molto tempo: soffre per le limitazioni del glaucoma e della degenerazione maculare che l’hanno reso quasi completamente cieco.
Ma forse per lui, abituato ad affrontare le avversità con lo spirito del cane randagio che si butta tutto alle spalle e guarda sempre avanti, questi giorni di celebrazioni sono anche occasione di sofferenza: lo sospingono di nuovo verso il suo passato. E infatti agli intervistatori che gli chiedono di ripercorrerlo risponde, secco, di leggersi Little Boy. Un libro di riflessioni sul mondo, di denunce, speranze e presagi di apocalittici disastri ambientali. Un resoconto del secolo che ha attraversato, masticato e digerito nel quale esaurisce la sua personale biografia nelle prime venti pagine: l’infanzia a Bronxville, la guerra, gli studi a Parigi, alla Sorbona, la corsa verso il West, l’Ultima frontiera: «Il grido era “Go West, young man” e anch’io mi misi a correre dietro quella sirena bendata». Poi le carriere parallele di poeta e imprenditore della cultura che scopre Jack Kerouac e pubblica l’Urlo di Allen Ginsberg sfidando la censura in una battaglia che, a metà degli anni Cinquanta, cambiò l’America ampliando i confini della sua libertà d’espressione. E poi la pubblicazione del capolavoro, Coney Island della mente, un milione di copie vendute, un’enormità per una raccolta di poesie. Col bimbo che Ferlinghetti non ha mai smesso di essere che ricostruisce, nella sua fantasia, il primo incontro tra i suoi genitori nel lunapark di Brooklyn.
Ma cos’è questo «Little Boy» del suo libro? A un italiano ricorda il fanciullino di Pascoli, che sopravvive sempre, nascosto in un angolo dell’anima degli adulti.
«Certo, è così: nascosto in un angolo, ma sempre pronto a rispuntare fuori attraverso la poesia e la sua natura intuitiva e irrazionale. E lui è come me, che ho sempre vissuto nel presente. Leggete Little Boy così: non c’è passato, non c’è futuro, esiste solo il presente».

Un fanciullino rimasto innocente nonostante tutto quello che ha vissuto?
«Sì, Little Boy deve restare innocente. Ma è ben informato su quello che accade».

Il Ventesimo secolo attraversato da «Little Boy» è stata un’era di guerre e tragedie ma anche di cambiamento: libertà, democrazia, diritti civili. Il Ventunesimo secolo, fin qui, è meno sanguinoso, ma sta ridando fiato agli autoritarismi, al nazionalismo. C’è più spazio per il razzismo e la violazione dei diritti civili e umani. Un mondo stanco di democrazia?
«Non credo che il mondo sia stanco di democrazia: ne vogliamo di più, non di meno. Mi piacerebbe vedere un’occupazione di massa della Casa Bianca, una spinta che porti all’impeachment del presidente Trump. E credo che qualcosa del genere dovrebbe avvenire anche in Italia e nelle altre nazioni nelle quali hanno successo i movimenti autoritari».

Lei è stato un protagonista della Beat Generation, movimento antiautoritario per eccellenza. Ma rifiuta l’etichetta di «beat» perché il suo stile letterario è diverso da quello della generazione di poeti dei quali è stato amico, editore e impresario.
«Senza Allen Ginsberg non ci sarebbe stata una Beat Generation. Fu una creazione della sua mente. Quanto a me, non sono mai stato un beat. Una volta io e Kerouac eravamo seduti sulla spiaggia di Big Sur davanti al Pacifico. Mi chiese: “Cosa ci sta dicendo il mare?”. Risposi, visto che tutti e due eravamo cresciuti parlando francese, «les poissons de mer parlent Breton» (i pesci parlano bretone, come bretoni erano le origini di Kerouac, ndr). Ecco, in quelle parole c’era il mio essere immerso nella grande beatitude di quel tempo, pur non essendo un beat. Ma ho condiviso quel messaggio, che è stato a lungo la voce centrale del dissenso americano. Un messaggio che resta ancor oggi una valida critica dello stile di vita americano».

«Me, me, me», l’ossessione autoreferenziale che lei ha sempre denunciato, è una malattia dell’America o del mondo?
«Per guarire da questa patologia ci vorrà una generazione completamente nuova, non intrappolata nella cultura del Me, me, me. Una nuova generazione non soggiogata dal desiderio di successo materialistico, che non glorifica il capitalismo, capace di liberarsi dell’alito cattivo della civiltà industriale. Serve una rivoluzione basata su principi socialisti che diffonda benessere non solo nei Paesi già ricchi».

Lei ha sempre criticato aspramente la Chiesa. Ma a volte sembra avere una sua personale religiosità come quando, nei suoi poemi, immagina un Paradiso senza la sorveglianza asfissiante degli angeli custodi.
«Religioso?». E poi declina il suo catechismo, in italiano: «Mangia bene. Ridi spesso. Ama molto».

Nelle sue opere torna di frequente il conflitto con gli altri, «the Other». Ora è più violento. Colpa della comunicazione digitale che favorisce le voci più brutali?
Silenzio. Mauro mi fa notare che Ferlinghetti non conosce il linguaggio degli hater dei social media. La conversazione finisce qui, le altre risposte arrivano scritte.

Cos’è per lei l’Italia? Il padre mai conosciuto, North Beach, la nostra cultura?
«San Francisco è sempre stata una città italiana, fin dal nome. È basata su un idillio con l’Italia. E io ho vissuto a North Beach, nel suo cuore, dove la gente parlava nordbiccese».

Quanto fu importante l’Italia per il suo ruolo nel Fluxus, il movimento artistico d’avanguardia post-futurista e post-dadaista degli anni Sessanta e Settanta?
«A Verona Francesco Conz decise che io ero il portabandiera ideale per il Fluxus. Gli anni italiani furono per me di grande ispirazione. Creai anche il verbo fluxare: io fluxo, tu fluxi, noi fluxiamo... “Vuoi fluxare con me stanotte?” voleva dire “realizza i tuoi sogni”. Sto aspettando che i vocabolari se ne accorgano. E considero Pier Paolo Pasolini il più grande intellettuale del Ventesimo secolo».

Corriere della sera, 16 marzo 2019

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