7.6.19

Hannah Arendt, gli equivoci su Marx e l'insostenibile banalità del male (Donatella Di Cesare)

Hannah Arendt

Le polemiche che Hannah Arendt ha suscitato in vita, e alle quali aveva quasi finito per abituarsi, non si sono mai interrotte e, anzi, con la pubblicazione degli scritti postumi, sono andate persino acuendosi. Contribuirà a riaccendere il dibattito anche il volume Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale appena uscito per Raffaello Cortina. Si tratta di due testi: uno più breve, di carattere introduttivo, uno più lungo e sistematico, in cui Arendt punta a far emergere i nessi che legano Karl Marx a tutta la riflessione politica precedente, da Platone a Hegel. Furono redatti entrambi in occasione delle conferenze tenute all’Università di Princeton nell’autunno del 1953.
Esistono elementi totalitari nel marxismo? E in che modo potrebbe esserne responsabile Marx? Forse Arendt aveva intenzione di scrivere un volume su questo tema — avverte Simona Forti che ha curato il volume. È ovvio, d’altronde, attendersi una risposta dalla filosofa che ha sostenuto la tesi dei due totalitarismi, sottolineando l’affinità tra comunismo sovietico e nazismo. Ripresa da Martin Heidegger, e rilanciata nell’America del maccartismo, questa tesi, rispondente allo spirito della «guerra fredda», non regge né sotto il profilo storico né sotto quello filosofico ed è stata perciò oggetto di numerosissime critiche nella filosofia degli ultimi decenni — da Günther Anders a Jacques Derrida. Gli echi polemici non si sono mai spenti. Se ne trova traccia anche in volumi pubblicati di recente, come quello di Tama Weisman "Hannah Arendt and Karl Marx"(Lexington Books, 2013).
Non si può imputare a Marx la deriva dello stalinismo — sostiene Arendt. «Chiunque tocchi Marx, tocca la tradizione del pensiero occidentale». E questo perché la linea che unisce Aristotele a Marx è più diretta di quella che unisce invece Marx a Stalin. Ma la posizione di Arendt appare più ambigua e complessa, come emerge nel confronto tra Aristotele e Marx su cui riflette Adriana Cavarero nella postfazione. In un celebre passo Aristotele definisce l’uomo un «animale politico che possiede il lógos », che ha la parola, e perciò può partecipare alla vita politica della pólis, della città. Secondo Marx invece l’uomo è l’animale che lavora e anzi, su questo animal laborans è incentrata la sua opera.
Ecco, dunque, per Arendt, la grandezza, ma anche il limite di Marx: aver visto nel lavoro ciò che distingue gli umani dagli animali. Grandezza perché Marx, sulla scia di Hegel, comprende che, nel mondo che va inaugurandosi con il capitalismo, il lavoro diventa l’asse centrale della vita e tutti sono destinati a diventare lavoratori. Il limite sarebbe, però, nel modo di intendere il lavoro che, se da un canto viene glorificato — e l’erede di questa glorificazione è l’Unione Sovietica —, dall’altro viene visto come una faticosa costrizione. Quindi per Marx «non la libertà, bensì la necessità è ciò che rende umano l’uomo». E di liberazione si potrà parlare solo quando l’umanità sarà giunta alla fase finale della storia, solo quando sarà stata prodotta, con lacrime e sangue, la società senza classi, il regno della libertà. Non si tratta, per Arendt, solo della contraddizione tra la necessità ineludibile e la libertà sempre rinviata. Marx universalizza il lavoro, intravvede e profetizza una «società dei lavoratori», dove le differenze vengono abolite, ma dove sarebbe appunto il lavoro ad accomunare, non la parola. Proprio perché concepisce una sfera politica dove viene meno il ruolo decisivo del lógos, aprirebbe la strada al totalitarismo.
In questa interpretazione Marx appare un Giano bifronte che per un verso è rivolto alla tradizione della filosofia politica occidentale, per l’altro guarda già sinistramente al dominio totalitario. Comunque la si pensi, per nulla convincente è l’immagine di un Marx aristotelico tardivo che situa in un futuro indefinito la vita della pólis greca. Piuttosto è Arendt che riprende una concezione metafisica dell’essere umano inteso come «animale razionale», corpo e anima, che Heidegger aveva già criticato nella sua Lettera sull’«umanismo». Perché l’umanità dell’uomo non può essere ridotta a una animalità, seppure contraddistinta dalla parola. L’essere umano va ripensato. E Heidegger lo fa anche attraverso Marx, in particolare il giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Poco convincente è anche la tesi, che Arendt ha sostenuto nel saggio La tradizione e l’età moderna (contenuto nel volume Tra passato e futuro, edito da Garzanti), secondo cui Marx pensa la politica solo come dominio e glorifica la violenza. È probabile che il dibattito intorno ad Arendt, che ha già toccato questi temi, si concentrerà ancor più, nel prossimo anno, sul nodo filosofico-politico della rivoluzione. Com’è noto Arendt ha scritto un libro che è ormai un classico Sulla rivoluzione (pubblicato da Einaudi). Il suo giudizio, però, sul fallimento della rivoluzione francese e di quella russa, e sul successo di quella americana, è sempre più nel mirino. La discussione sul periodo del terrore e sulla «dittatura» di Robespierre, in cui Arendt vede a torto il preludio di quella bolscevica, è stata avviata in Francia dal libro di Sophie Wahnich La liberté ou la mort, del 2003, a cui hanno fatto seguito molti studi critici. Arendt, insomma, non smette di far parlare di sé.
Aumentano a ritmo serrato le pubblicazioni che fanno ormai del suo pensiero un punto di riferimento imprescindibile nella filosofia continentale. Le direzioni sono soprattutto due. La riflessione sui fenomeni globali, a partire da quelli dei profughi, della cittadinanza, dei diritti umani, prende le mosse dalle sue idee. Dall’altra parte va assumendo contorni sempre più nitidi il profilo di una filosofa che si sottrae a ogni etichetta e a ogni classificazione e che è stata una apolide del pensiero. Riesce perciò difficile seguire Emmanuel Faye che, nel suo ultimo libro Arendt et Heidegger, scritto dopo i Quaderni neri, intenta un nuovo processo, questa volta non contro Heidegger, bensì contro la sua allieva, rea di non aver preso abbastanza le distanze dal maestro e di trovarsi perciò in una insanabile contraddizione rispetto alla posizione assunta contro Adolf Eichmann.
Proprio la «banalità del male» continua a essere uno dei temi caldi. Non solo perché il suo ritratto di Eichmann appare sempre più datato. Oggi sembra davvero discutibile ridurre le motivazioni ideologiche e politiche come fa Arendt: «L’ideologia non ha avuto, credo, una grande importanza. Questo mi sembra l’aspetto decisivo». Nel suo libro Eichmann vor Jerusalem, pubblicato prima in Germania, poi negli Stati Uniti, la storica Bettina Stangneth ha aspramente criticato questa visione. Risponde all’esigenza di liberare quella vicenda dall’ombra di Arendt il saggio Il processo Eichmann di Deborah Lipstadt (Einaudi). Ma le questioni aperte sono in particolare due. Se Eichmann era solo un burocrate, la rotella di un ingranaggio, come avrebbe potuto essere condannato? Arendt parla della «scandalosa stupidità» di Eichmann, della sua «assenza di pensiero», della incapacità di «mettersi nei panni degli altri». Il rischio, purtroppo, è stato ed è quello di aver aperto le porte a una parola «banalità», spesso usata a sproposito, che ha finito non di rado per banalizzare la questione del male.

Corriere della Sera, 27 Novembre 2016

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