4.6.19

Il “Novecento” di Bertolucci. «Volevo mostrare a Pasolini che l’utopia era possibile» (Arianna Finos)



ROMA
«Novecento è nato qui». Bernardo Bertolucci allunga le braccia verso il grande salotto, come potesse toccare i ricordi e le pareti fossero impregnate delle conversazioni con il fratello Giuseppe e l’amico Kim Arcalli. Dalla casa studio del regista a Trastevere prese vita un progetto epico. Tre anni di lavorazione, cinque ore di film per raccontare mezzo secolo di storia d’Italia tra lotta di classe e sentimenti. Novecento monopolizzò il Festival di Cannes, nel maggio di 40 anni fa. «Partimmo da un’idea semplice. Nel 1900 nascono due bambini: il figlio dei padroni e quello dei contadini. Si chiamano Alfredo, in omaggio alla Traviata, e Olmo, in omaggio agli alberi sterminati in quell’epoca da una grave malattia».
Il film si apre con la morte di Verdi ed è concepito in due atti, come un’opera.
«Abbiamo pensato di contenere tutto il periodo che va dal 1900 al 1945 nel giorno della Liberazione, il 25 aprile. Il tempo dei contadini è scandito dalle stagioni. Così pensammo a una grande estate per l’infanzia. Poi i protagonisti crescono ed è autunno. Arriva il fascismo, l’inverno, il film si fa dark con i personaggi di Attila, Donald Sutherland e Regina, Laura Betti, che sono due veri mostri».
Per i due patriarchi, il nonno contadino e il nonno padrone, scelse Sterling Hayden e Burt Lancaster.
«Sterling, lo ricordavo in Giungla d’Asfalto e nel Dottor Stranamore, arrivò da Roma a Parma su una vecchissima moto Triumph. Prima di ogni ciak lo trovavamo sdraiato sotto qualche albero a farsi una canna. La sera in cui doveva incontrare Lancaster, Sterling era nervosissimo. Beveva vodka e rimetteva in continuazione lo stesso brano di Barry White & Love Unlimited. “Tremo all’idea di incontrare Lancaster, è un uomo tutto d’un pezzo, troppo per bene, per me” insisteva lui. Burt Lancaster mi regalò la sua interpretazione, recitò gratis: “Dopo questo film voglio andare in Tibet in una grotta a imparare il buddismo” mi confessò».
Poi è il momento di DeNiro e Depardieu.
«Quando ho concepito il film pensavo sarebbe stato un ponte tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Dopo il successo di Ultimo Tango avevo un po’ sbarellato, con qualche scivolata nella megalomania. Pensavo di poter fare ciò che volevo io, pensavo che il cinema potesse cambiare il mondo. Volevo un attore sovietico per Olmo, ma rifiutai di sottoporre la sceneggiatura ai russi e ripiegai sul giovanissimo Depardieu. Per il ruolo di Alfredo andai a Los Angeles, incontrai Robert DeNiro e Harvey Keitel, scelsi Bob per il suo aspetto più borghese. DeNiro a New York mi portò a un concerto di Bob Dylan e in taxi litigò con l’autista sull’itinerario: “Gira di là, non fare il furbo, guarda che ho fatto il tassista per tre mesi”, diceva. Era reduce da Taxi Driver ».
Novecento fu anche una risposta al pessimismo antropologico di Pasolini.
«Pier Paolo con i suoi saggi raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora. Che i contadini emiliani erano riusciti a preservare, grazie al socialismo, la loro identità culturale. E poi volevo raccontare la grande utopia, la rivoluzione contadina. Novecento, distribuito da tre major americane, avrebbe portato negli Usa questo messaggio socialista. Invece la Paramount lo boicottò. Il presidente dichiarò: “Ci sono troppe bandiere rosse”».
In Italia quali scene vollero censurare?
«L’unica che mi chiesero di accorciare fu quella in cui la prostituta epilettica, Stefania Casini, è a letto tra DeNiro e Depardieu e prende in mano i loro membri. Ma io li ho imbrogliati, accorciando i fotogrammi ma prima che la cosa avvenisse. Così quel momento è rimasto nel film».
Il film è anche un omaggio alla sua infanzia tra i contadini, al mondo raccontato nelle poesie di suo padre Attilio.
«Fino a 12 anni ho abitato in campagna a casa di mio nonno. Accanto c’era la casa dei contadini, il civile e il rustico. Trascorrevo le giornate in questa grande famiglia. Era come se mi sentissi in debito con loro».
Fu con loro che lei scoprì la parola comunista.
«Durante la raccolta dei pomodori passa un camioncino con l’altoparlante: “Domani sciopero generale per la morte di Attila Alberti, ucciso barbaramente dalla celere di Scelba”. “Chi è?”, chiedo. La Nella si gira e mi dice: “Un comunista”. Poi mi racconta che ci sarebbe stata la rivoluzione, avrebbero appeso tutti i padroni ai rami degli alberi. “Anch’io?”, “No tu ti salvi perché sei un comunista” ».
Il Pci fu critico sulla scena del processo “cinese”.
«Fu penoso, per me. Volevo dedicare il film a Berlinguer. Invito il Pci alla proiezione. A metà film Pajetta è entusiasta, ma alla fine mi dice: “La seconda parte è un falso storico. Non c’è mai stato un processo ai padroni”. Mi è crollato tutto addosso. Rispondo: “Certo, il processo non c’è mai stato, ma questo è un film, è finzione, e racconta una grande utopia”. Ci voleva uno sguardo sofisticato per capire quel che volevo fare, i politici dell’epoca non lo possedevano. Mi sostennero i giovani della Figc, Veltroni, Borgna, Bettini….».
Progettò un Terzo atto...
«Dal 1945 al 2000, ma non l’ho mai girato perché non ho mai più ritrovato quel trasporto. Novecento fu un successo ma il mio idealismo ne uscì frustrato. Oggi li chiameremmo format: la cultura contadina, la piccola borghesia, la lotta di classe…. Ma già mentre finivo il film, con l’assassinio di Pier Paolo e la morte di Aldo Moro, per me era svanita la possibilità di sognare in quella maniera».
Qual è il suo sguardo sull’Italia di oggi?
«Forse questo rinchiudermi in una magica caverna high tech è anche dovuto al rifiuto di quel che è diventata l’Italia negli ultimi anni. Forse preferisco starmene qui, con una realtà audiovisiva che mi arriva da tutto il mondo, e stranamente mi nutre, piuttosto che muovermi per Roma, città degradata e probabilmente impossibile da salvare».
C’è un film che vuole girare?
«Ci deve essere, lo sto cercando. Incontro produttori, mi propongono grandi progetti che rifiuto in trenta secondi. Voglio girare in “due camere e cucina”, come per Io e Te. Vivo un po’ isolato, ma sono affascinato dal presente, per esempio dalla possibilità di girare un film con il telefonino. Da giovani sognavamo la caméra-stylo, oggi è realtà».

“la Repubblica”, 4 giugno 2016

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